Hrand Nazariantz. L’Armenia di un uomo e di un poeta morto in Italia in un insegnamento di verità
- Postato il 11 giugno 2025
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Pierfranco Bruni
“…accordami la felicità
d’essere amico dei Giusti e dei Sognatori,
e di far sorridere la primavera sulle labbra degli Amanti
e la canzone di Dio sui loro focolari deserti…”.
Cosa è stato
Hrand Nazariantz nella mia vita e in molti miei studi? È stato quel legame non solo con il mondo armeno ma soprattutto un intreccio tra un certo Oriente cristiano e gli Occidenti inquieti sul piano culturale.
Lo scrittore che portò la cultura italiana in Armenia.
La cultura italiana in Armenia ha sempre avuto un’importanza notevole. Dal mondo classico-greco al Futurismo la presenza letteraria in Armenia è stata molto formativa. Ad offrire un contributo notevole è stato Hrand Nazariantz che ha fatto tradurre molti scrittori italiani ed ha scritto saggi, da poeta, su personalità letterarie.
Tra l’Armenia e l’Italia la cultura Occidentale si intreccia con la tradizione Armena e trova nella letteratura un punto di raccordo fondamentale. Si è portato l’Armenia nel sangue. Un poeta cifra le parole sempre con il cuore. Le terre desolate o lontane. Le terre deserte o richiamanti nostalgie. La sua Armenia ha le ferite mai cucite. Ferite che diventano strozzature di cui la storia testimonia le rughe. E in questa sua Armenia cristiana che è stata devastata dai Turchi e dai comunisti ci sono anche i segni di una cultura che rimanda alla civiltà italiana.
Su questi temi ne parlo in un libro scritto, alcuni anni fa, insieme a Neria De Giovanni: Le parole per raccontare (edito da Nemapress).
Un poeta, dunque. Hrand Nazariantz. Nato a Costantinopoli l’8 gennaio del 1866 e morto il 25 gennaio del 1962 a Conversano (Bari). Giunge a Bari grazie alla cantante e ballerina Lena, ovvero, Maddalena De Cosmis di Casamassima, diventata sua sposa nel Consolato italiano di Costantinopoli nel 1913. Dopo il matrimonio arriva, come esule, a Bari. Comunque il suo interesse per la cultura letteraria italiana era nato in Armenia. Studioso di Futurismo e di quella letteratura italiana che porta i nomi di Marinetti, Govoni, Lucini, Verga, Pirandello.
Traduce in lingua armena Libero Altomare, Enrico Cardile, Torquato Tasso. Significativo resta il suo rapporto con Filippo Tommaso Martinetti. Con Marinetti intrattiene un rapporto epistolare a cominciare dal 1911 e la sua amicizia con Marinetti lo porta a scrivere un importante saggio dal titolo: “F.T. Marinetti e il futurismo”. Un saggio che resta un punto centrale nella storia critica del Futurismo e da Bari Nazariantz costituisce un punto di grande rilevanza in una lettura innovativa dei rapporti letterari tra l’Oriente e l’Occidente.
Le radici di Marinetti, la sua nascita ad Alessandria d’Egitto, sono dati di iniziale riflessione nel poeta armeno tanto che lo portano a studiare i legami mediterranei tra la letteratura armena e quella italiana in uno scavo che toccherà autori che segneranno il Novecento europeo come Ungaretti (nato anch’egli ad Alessandria d’Egitto), Ada Negri, Lionello Fiumi.
Poeti con i quali intaglia una relazione metafisica tra il suo scrivere e la parola vissuta di un esistenzialismo tagliato tra le corde di una testimonianza linguisticamente dentro l’Ermetismo.
Ma il “suo” Futurismo ha radici nella cultura certamente occidentale ma si filtra con l’esperienza di autori e di testi che si sono spesso confrontati con il Mediterraneo. Lo stesso suo saggio su Marinetti ha delle coordinate che rimandano ad una filosofia che trae la sua spirale dalla vita vissuta come avanguardia, ovvero come costante messa in discussione di quella tradizione che resta nell’espressione problematica ma si decifra nei linguaggi.
D’altronde la serata Futurista al Teatro Piccinni di Bari del 26 settembre del 1922 porta sulla scena la parola come azione partendo da una con testualità che è quella del “riflesso” dentro lo specchio parlante dei linguaggi. Ma Nazariantz sembra dividere le vie della letteratura proprio sul pianto strutturale o contestuale. Da una parte la nostalgia che diviene “dono espressivo” dall’altro il peso della parola che vive di rivoluzioni nella (e della) lingua.
Il suo intervento critico è dentro la letteratura e il più delle volte diventa un manifesto di poesia. La sua raccolta di versi del 1952 “Il ritorno dei poeti” va verso questo indirizzo che si apre al superamento di una splendida intuizione che si legge in due titoli che mostrano tutta la loro eleganza: “Paradiso delle Ombre” e “Aurora anima di bellezza”.
Certo, la sua Armenia è un cammino nella diaspora, nella nostalgia e nel sangue. Ma la sua poesia che vive di questi incroci trova nella meditazione dei “crocifissi”, ovvero nell’aurora della cristianità, la metafora più marcata di un intero viaggio umano e letterario. Ma l’Oriente resta il suo viaggio interiore. Vi rimane e permane anche quando la sua rivista “Graal” pone a confronto il senso cosmico e la tragedia come costante quotidianità del vivere. È, comunque, il paradiso metaforizzato dei fiori e del deserto che tocca i labirinti del suo esistere dentro la parola e dentro la poesia che è linguaggio dell’anima.
La sua Armenia è diaspora ma anche favola e leggenda. È il canto dell’arte trascinato nel dolore e nell’esilio. L’esilio non si consumerà e non si ritornerà dall’esilio. Chi l’esilio lo ha vissuto resterà sempre un viandante disperso e ritrovato e il poeta Nazariantz vive l’esilio come la sua vera “abitazione”. Il suo canto armeno è il canto di una Armenia solcata tra le strade dell’Occidente cristiano che non può fare a meno di confrontarsi con una storia ferita e con la nostalgia scavata nell’anima e nel pensiero.
L’esilio di Nazariantz ha il taglio: “Tu sapessi, fratello, come è triste/l’essere al mondo,/soli vivere e senza focolare,/non sapere ove poggiar la testa/e volgere la propria tristezza/verso I silenzi di Dio, camminare/stancamente senza posa, ovunque estranei…”. Il sentirsi estranei o stranieri è un sentimento che nella diaspora del viandante Nazariantz è una dimensione ontologica in cui il concetto di esilio è metafisica dell’anima in un sapere che costantemente si ripete: “…ovunque esiliati,/sapendo vana ogni ribellione/e vana ogni preghiera…”.
Versi che vivono nel sacrificio della Croce. Nazariantz ha nella sua segnatura cristiana il rapporto dialogico tra la “terra e le “stelle” in una sospensione che è religiosità verso l’aurora. Nella sua diaspora il poeta trova l’aurora superando il supplizio del buio. Così l’Oriente e l’Occidente si ritrovano nella loro archeologia della conoscenza, in quel sapere dell’anima che vive la libertà e il sogno. Ma la poesia è religione.
Nel pensare di Nazariantz sono incancellabili queste chiose: “Chi crea per l’effimero soggiace all’effimero. Il vero Poeta si distingue perché la sua vita è il migliore dei suoi poemi”. Alla ricerca di un ulissismo mai vissuto e mai volutamente cercato, senza il lascito di profezie altre, Nazariantz, pur nella sua diaspora e nel suo abitare l’esilio (zambraniano), non smette di viversi dentro la luce della spera e dell’attesa e con le rughe di una ironia che solcano i suoi passi.
La sua poesia è un misterioso incanto che si incastra nella storia di un uomo che ha vissuto l’Occidente negli scavi di un Oriente che è rimasta sempre il suo paese e la sua appartenenza. Ha portato con sé i fiori del deserto, la libertà della tradizione, la rivoluzione dell’arte come nostalgia e come gioco consapevole che l’arte vive sempre nel silenzio, nella solitudine e nella pazienza dell’anima grande che fa i poeti e gli uomini unici.
Un poeta dell’anima tra i silenzi custoditi e le voci raccolte. Un poeta metafisico che ha interpretato il futurismo con le alchimie della memoria. Ma è tutta l’anima Armena che vive nel linguaggio di Nazariantz: lo strazio, la diaspora la religiosità, l’incontro. Un viaggio in una identità mai perduta. Quella identità grazie a lui divenne in me, in tempi lontani, mosaico di civiltà. Un solitario che insegnò la pazienza e la religiosità di un popolo che visse un destino tragico nel primo genocidio di quello che venne definito mondo moderno nella civiltà della Tradizione. C’è sempre un “Paradiso di ombre” che indica la via…
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Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “ Francesco Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Incarichi in capo al Ministero della Cultura
• presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;
• presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;
• segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse”, presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra linguaggio poetico e musica. Un tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.
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