Husky 1943 – Lo sbarco che non è mai finito davvero
- Postato il 13 luglio 2025
- Editoriale
- Di Paese Italia Press
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di Massimo Reina
Husky fu un successo strategico, ma per capirlo davvero bisogna calarsi nella polvere delle strade siciliane, nel silenzio di chi vide cambiare bandiera senza capirne la lingua.
La notte tra il 9 e il 10 luglio del 1943, il mare tra Licata e Pachino sussurrava un segreto che avrebbe cambiato la storia.Più di 160.000 soldati angloamericani — un numero mai visto prima in un’operazione anfibia — sbarcavano sulle coste siciliane, accompagnati da un ruggito di eliche, granate e vento caldo africano. Era l’inizio dell’Operazione Husky, l’invasione alleata dell’Italia. Ma era anche, e forse soprattutto, la fine di un’epoca e l’inizio di una lunga transizione mai del tutto compiuta.
Lo raccontano i manuali di storia come un “successo strategico”. Lo fu, certo. Ma per capire cosa fu davvero Husky, bisogna sporcarsi le mani con la polvere delle strade siciliane, i silenzi dei contadini, gli sguardi di chi vide il cambio della bandiera senza capirne la lingua.
Una terra invasa due volte: dai fascisti e poi dai liberatori.
L’obiettivo militare era chiaro: aprire il fronte sud europeo, scalzare Mussolini, alleggerire la pressione su Stalin, e preparare la risalita verso Roma. Ma la Sicilia, che era stata già saccheggiata, tradita, umiliata da vent’anni di fascismo, fu colpita due volte. Prima dai bombardamenti alleati, che ridussero in macerie Palermo, Catania, Gela. Poi dalle retate, dagli interrogatori, dalle rappresaglie fasciste contro i sospetti collaboratori dei “nemici”, spesso semplici civili.
E infine, dalla seconda invasione: quella silenziosa, quella americana. Che portava chewing gum, cioccolata, sigarette e dollari. Ma anche una nuova gerarchia sociale, una nuova lingua, nuovi miti. Nacque in quei giorni il mito del “liberatore americano”, ma anche l’ambiguità della liberazione a metà, che per molti fu solo sostituire un padrone con un altro.
Il patto col diavolo: mafia e potere
Pochi vogliono ricordarlo, ma è lì, durante l’Operazione Husky, che gli americani iniziano a stringere i primi accordi con la mafia locale.Per favorire lo sbarco, per ottenere informazioni su strade, percorsi e contatti siciliani ed evitare sabotaggi, si cercò la mediazione di personaggi già noti come Vito Genovese, Albert Anastasia, Meyer Lansky e Lucky Luciano, quest’ultimo tramite l’intermediario Joseph “Socks” Lanza. Non un patto formale militare, sia chiaro, ma accordi vari.
In cambio, dopo lo sbarco, i mafiosi tornarono ad avere potere, legittimati dagli alleati come “notabili” affidabili. Molti di loro furono nominati sindaci, come gli amici di Luciano, Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, o incaricati nei Comitati di Liberazione, come si evince ad esempio dai documenti relativi all’amministrazione alleata in Sicilia (AMGOT) e alla riorganizzazione dei municipi siciliani nel ’43–’44.
Finì il fascismo, ma tornò la mafia, quella vera, quella che sotto Mussolini era stata almeno costretta a nascondersi. Questa è una delle eredità più pericolose di Husky.Perché mentre si celebrava la liberazione, si stava cementando un patto di lunga durata tra potere militare americano e criminalità locale, che avrebbe condizionato la vita politica siciliana per decenni. Fino a oggi.
Il prezzo della libertà
Molti dimenticano che l’Operazione Husky fu anche un bagno di sangue.Non solo per i soldati — oltre 20.000 tra morti e feriti tra le file alleate — ma per migliaia di civili, uccisi sotto i bombardamenti o vittime di vendette incrociate.
Le cronache di quei giorni raccontano di paesi interi rasi al suolo, di bambini sepolti sotto le macerie, di giovani fucilati per sospetto di spionaggio, di donne violentate o usate come informatrici, poi punite come traditrici. Quella “liberazione”, così come ce l’hanno venduta nei cinegiornali del dopoguerra, fu un’operazione sporca, ambigua, spesso cinica. Ma anche necessaria, forse. Perché nessuno può amare una guerra, ma tutti devono scegliere quale pace accettare.
Cosa ci resta oggi di quello sbarco?
Molti siciliani non sanno nemmeno più cos’era Husky. È rimasto nei nomi delle piazze, nelle caserme americane abbandonate, in qualche cimitero militare con croci bianche affacciate sul mare. Ma Husky vive ancora oggi nelle scelte geopolitiche italiane, nella nostra subalternità atlantica, nel modo in cui accettiamo — o subiamo — il ruolo dell’America come nostro garante, padrino, alleato e sorvegliante.
Vive nella presenza silenziosa delle basi NATO in Sicilia, nelle zone dove non è lo Stato italiano a comandare, ma comandi alleati, esercitazioni segrete e missili invisibili. Vive nel fatto che, dopo 80 anni, non abbiamo ancora capito se siamo una nazione sovrana o una provincia armata di qualcun altro.
Forse proprio per questo, Husky non è mai davvero finita.
È ancora lì, sotto la sabbia di Gela, tra le ombre di Sigonella, nelle mappe dei generali e nei silenzi dei presidenti. E nel nostro difficile, eterno tentativo di capire che tipo di libertà ci è stata regalata.
Nota dell’autore
Questo articolo non intende in alcun modo sminuire l’enorme sacrificio dei soldati Alleati, dei partigiani, dei cittadini italiani e di tutte le vittime della Seconda guerra mondiale.
Se oggi siamo liberi, lo dobbiamo anche a quei giovani americani, inglesi, canadesi e di tante altre nazioni che sbarcarono sulle coste siciliane con il cuore gonfio di ideali e la voglia di liberare i popoli dall’oppressione.
Le critiche qui espresse sono rivolte alle modalità politiche e strategiche, ai compromessi cinici e a certe scelte dei governi e delle intelligence del tempo.
Non allo spirito, al coraggio, né alla generosità di chi – spesso ventenne – ha lasciato la propria casa, il proprio Paese, la propria vita per un’idea di libertà.
A loro va, oggi come allora, la mai gratitudine e il mio rispetto più profondo.
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