I beni culturali tra identità e alterità. Dal Ministero di Gennaro Sangiuliano a oggi
- Postato il 18 agosto 2025
- Politica E Pubblica Amministrazione
- Di Artribune
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Come c’era da aspettarsi, con la destra al governo il tema dell’identità ha spopolato, e l’aggettivo “identitario” ricorre come un mantra, spesso affibbiato al patrimonio culturale. Gennaro Sangiuliano, nei due anni in cui ha occupato la poltrona di Ministro della Cultura, ne ha fatto un uso straripante: da una rapida ricerca in rete emerge che ha elogiato in quanto “identitario” il 17 marzo, il vino, il Festival di Sanremo, il Palazzo Chigi di Ariccia, Trieste, e l’elenco potrebbe continuare a lungo (chissà se ha speso l’aggettivo anche per Maria Rosaria, che farebbe pure rima).
L’identità secondo il Ministro Giuli
Il suo successore ha, ma solo in parte, corretto il tiro, parlando di “identità plurale” in occasione del suo primo discorso in Parlamento: “Questa parola [identità] non deve essere vista come elemento di chiusura, ma al contrario deve essere vista come elemento di dialogo: noi vogliamo declinarla nel senso di una identità plurale, capace di coniugare in sé l’altro, in una relazione rispettosa delle differenze”. Sarà, ma intanto il ministero, nel quadro di pesanti tagli a illustri istituzioni culturali quali, tra le altre, la Biennale di Venezia e il Festival dei Due Mondi, ha pensato bene di foraggiare con mezzo milione di euro una manifestazione di stretta osservanza meloniana, e dal nome piuttosto inquietante, come il Festival delle Città Identitarie.
Le parole identità e identitario in Italia
“Identità” e “identitario” sono parole scivolose, da usare con estrema accortezza, tanto più in una realtà sempre più meticcia come la nostra. Non è detto peraltro che vadano rigettate in toto, quando identifichino un rapporto affettivo particolarmente stretto, un salutare senso di appartenenza del cittadino nei confronti delle testimonianze storiche e artistiche disseminate sul territorio. Il punto, tuttavia, è un altro: il patrimonio è portatore non solo del concetto di identità, ma anche, e spesso in misura maggiore, del suo opposto, dell’idea di alterità. Altrimenti detto: il patrimonio non assume valore e non va conosciuto e amato solo in quanto elemento costitutivo della nostra identità, ma anche per tutto quello di diverso, di irriducibile a noi stessi che porta con sé.

L’idea di alterità
Davvero, quando ammiriamo il Colosseo, pensiamo che noi siamo quella cosa lì, e dunque, tra le tante cose, una società schiavistica, dominata dalla violenza, in cui anzi la violenza si fa spettacolo, devota a una ridda di divinità improbabili, una società in cui i ricchi, perlomeno nelle occasioni importanti, cenavano sdraiati? Il discorso vale anche per le epoche più recenti, per i monumenti cristiani che si trovano a sopravvivere in una società ormai secolarizzata come la nostra: una chiesa è per molti di noi qualcosa di altro e non un “pezzo di noi”, ma questo non la sminuisce affatto (o almeno, non dovrebbe farlo), perché l’interesse e l’amore nei suoi confronti restano inalterati, se non risultano addirittura accresciuti.
Identità europea e colonialismo
Un ridimensionamento della retorica identitaria sarebbe dunque benvenuto. Innanzitutto, per una comprensione più sfaccettata delle testimonianze del passato, che altrimenti rischiano di essere ridotte a mera anticipazione del nostro presente, in un’opera di instancabile banalizzazione. Il thermopolium come il fast food dei romani, la pizza raffigurata in una pittura pompeiana: queste e mille altre corbellerie hanno in tale retorica la loro radice. Soprattutto, apprezzare l’alterità del patrimonio ci educa al diverso, all’inaspettato. Significa perpetuare un approccio che, come ci hanno ricordato Claude Lévi-Strauss prima e Salvatore Settis poi, ha avuto una straordinaria importanza nella costruzione della, mi si passi il termine, identità europea: vivere per secoli tra le grandiose tracce di una civiltà altra come quella greco-romana ha acceso in Europa, più che altrove, quella scintilla della curiosità per le altre civilizzazioni che ha avuto modo di esplicarsi quando gli europei hanno conquistato il mondo (e che ha rappresentato l’aspetto più bello di un fenomeno complesso come quello delle scoperte geografiche e del colonialismo, in cui le pagine tragiche e vergognose sono nettamente più numerose di quelle di segno positivo).
Il museo come spazio altro
D’altra parte, il museo stesso è uno spazio altro, anche se facciamo di tutto per renderlo simile a quanto sta al di fuori di esso: uno spazio in cui si sta zitti e non si bercia, in cui si guarda e non si vede, in cui si riflette e non ci si fa travolgere dal frastuono visivo e auditivo del mondo esterno, o semplicemente dalle notifiche del proprio telefonino. Ma questa alterità ci spaventa, o perlomeno ci infastidisce, scambiata sovente per mancanza di un reale utilizzo: e allora ci diamo sotto con il continuo avvicendarsi di mostre grandi e piccine molto spesso trascurabili, dialoghi tra epoche del tutto pretestuosi e financo lezioni di ginnastica e di yoga per stravolgerne quell’atmosfera rarefatta e sospesa che ai nostri occhi e alle nostre orecchie suona quasi come un insulto.
Fabrizio Federici
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L’articolo "I beni culturali tra identità e alterità. Dal Ministero di Gennaro Sangiuliano a oggi" è apparso per la prima volta su Artribune®.