I nostri libri del 2025. Consigli di lettura foglianti
- Postato il 20 dicembre 2025
- Di Il Foglio
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I nostri libri del 2025. Consigli di lettura foglianti
Carlo Masala. “Se la Russia attacca l’Occidente” (Rizzoli);
Filippo Sgubbi
“Il diritto penale totale” (il Mulino)
Emmanuel Carrère
“L’Avversario” (Adelphi)
Non uno, ma tre consigli, tre letture necessarie, per provare a capire dove siamo, per provare a capire di cosa parliamo, per provare a ricordarci come dobbiamo scrivere. Tre libri, tre consigli. Carlo Masala, Rizzoli, ha scritto un gran libro intitolato “Se la Russia attacca l’Occidente”. Tema: provate a proiettare le titubanze di oggi in un futuro prossimo e capirete cosa vuol dire permettere alla Russia di impossessarsi delle nostre paure. Secondo consiglio, dal passato: Filippo Sgubbi, “Il diritto penale totale”, Il Mulino, formidabile testo utile per capire cosa vuol dire, quando si parla di giustizia, scommettere sullo status quo. Terzo libro, utile per ritrovare il gusto del romanzo quando si è rimbambiti dalla lettura dei saggi. “L’avversario”, Emmanuel Carrère, Adelphi. Tre consigli, tre letture, tre regali necessari, per mettere un po’ di ordine e provare a guardare all’anno che verrà senza eufemismi e chiamando le cose con il loro nome. (Claudio Cerasa)
Javier Cercas
“Il folle di Dio alla fine del mondo” (Guanda)
Di solito i libri su commissione, o i progetti editoriali ideati a tavolino alla ricerca del giusto mix tra Grande personaggio, Grande scrittore e Grande evento producono cocktail imbevibili. Qualche sospetto di avvelenamento lo si poteva avere, quando la macchina mediatica vaticana, invero un tantino surriscaldata nell’ultimo scorcio del pontificato di Francesco, decise di chiamare uno scrittore d’alta classifica e d’alta quota letteraria e, nell’ordine, ateo laicista e anticlericale come Javier Cercas per seguire il viaggio di Bergoglio in Mongolia, davvero una “fine del mondo”, ma dove c’è una piccola comunità cristiana, e scriverne liberamente. Un libro. Un “romanzo no-fiction”. Poiché Cercas è intellettuale serio, si documentò per bene, sul personaggio a lui poco noto e su quel mondo per lui più lontano di Ulan Bator, prima di accettare. Incontrò qualche amico del Papa, per farsi un’idea. Partì. In cuor suo pensando che l’unica domanda che gli sarebbe piaciuto porre, lui ateo a un Papa, era questa: “Posso dire a mia madre che rivedrà suo marito dopo la morte?”. In aereo, Francesco gli rispose. Il libro che da questo “progetto” è nato è incredibilmente vivo, sincero, curioso, informale e persino divertente. E’ un libro che, in fondo, documenta l’unica cosa importante del cristianesimo: che non è “dopo la morte”, ma è la storia concreta di una serie di incontri, personali, coinvolgenti e umanamente credibili. Che possono diventare amicizie, cioè una storia. (Maurizio Crippa)
Simon Schama
“Cittadini. Cronaca della Rivoluzione francese” (Mondadori)
Non è un libro nuovo. Anzi: “Cittadini” di Simon Schama è uscito nel 1989, quando il Muro stava per cadere e la parola “rivoluzione” sembrava avere ancora un futuro radioso. E invece Schama, con trent’anni di anticipo sul disincanto generale, raccontava già allora una storia molto meno edificante. “Cittadini” è la Rivoluzione francese senza zucchero a velo. Niente affreschi oleografici, niente “popolo” in maiuscolo che avanza compatto verso la libertà. Schama fa un’altra cosa: racconta i fatti, anche quelli minimi, quelli che gli storici noiosi considerano irrilevanti e che invece spiegano tutto. Cosa si guardava a teatro. Che successo ebbero “Le nozze di Figaro”. Come l’immaginario precede l’azione, come le idee diventano costume, e poi folla, e poi lama. E’ una storia di idee, certo, ma soprattutto di corpi. Di piazze, di sangue, di paura. La violenza non arriva alla fine come una degenerazione imprevista: è lì dall’inizio, è il motore, il linguaggio, la grammatica della Rivoluzione. Si parte con Rousseau e si finisce con il boia di Parigi. Non per tradimento, ma per coerenza. Ed è questa la lezione più scomoda del libro: non tutte le buone intenzioni portano a buoni esiti. Anzi, spesso fanno il contrario. Schama scrive come sanno scrivere gli storici inglesi, cioè come scrittori veri. Racconta, seduce, trascina. Non spiega soltanto: fa vedere. Ed è forse per questo che “Cittadini” resta una lettura preziosa oggi, quando di rivoluzioni se ne invocano molte, ma di ghigliottine nessuno parla mai. Il passato, letto bene, serve esattamente a questo: a ricordarci dove può portare l’entusiasmo quando smette di pensare. (Salvatore Merlo)
Julia Ioffe
“Motherland. A Feminist History of Modern Russia, From Revolution to Autocracy” (William Collins)
La sera del 30 agosto 1918, Lenin fu colpito da due proiettili mentre usciva da una fabbrica di armi. A sparare fu Fanny Kaplan, ventotto anni, socialista rivoluzionaria rivale dei bolscevichi. Kaplan era furiosa perché Lenin aveva sciolto l'Assemblea costituente per impedire ai socialisti rivoluzionari regolarmente eletti di prendere il potere: sparò, si consegnò, spiegò le sue ragioni, si rifiutò di fare i nomi dei suoi complici. Lenin sopravvisse, ma il tentato omicidio divenne il pretesto per il Terrore, la polizia segreta giustiziò più di seimila cittadini sovietici in due mesi, Fanny fu tra i primi. Julia Ioffe, giornalista informata e brillante che è arrivata in America dalla Russia quando aveva sette anni, all'inizio degli anni Novanta, racconta in “Motherland” la storia di Fanny e di altre donne, rivoluzionarie, dissidenti, scienziate, mogli, figlie, amanti, intrecciando la storia dell'Unione sovietica con quella della sua famiglia: sua madre era un'otorinolaringoiatra diventata patologa; sua nonna era una cardiologa; una sua bisnonna era pediatra, un'altra era una chimica che negli anni Trenta gestiva un laboratorio tutto suo. Non erano donne straordinarie, scrive Ioffe, erano donne normali, donne sovietiche. Nel 2009, Ioffe è tornata a Mosca e ha incontrato donne più interessate a trovare un marito ricco che a studiare e lavorare, che le hanno detto che il femminismo è una fissazione occidentale, un po' ridicola, certamente non russa. Ioffe racconta questa storia capovolta, dalla parità di genere sovietica imposta per decreto (ma di cui le donne approfittarono per conquistare, voraci e appassionate, un posto in una società violentemente patriarcale) ai popolari corsi di oggi per imparare a flirtare con gli uomini. Mentre cerca di spiegare com'è possibile che le aspiranti rivoluzionarie si siano trasformate in aspiranti casalinghe, Ioffe fa dire la frase definitiva a un uomo, suo padre: “La nostra madrepatria è un paese senza futuro”. (Paola Peduzzi)
Augusto Massari
“Il regno perduto dell’Albània Caucasica” (Cantagalli)
“Mi chiedevo come una cosa così grandiosa avesse potuto essere sconosciuta”, dice nelle primissime pagine di questo libro il suo autore, l’ambasciatore Augusto Massari. La cosa “grandiosa” era la chiesa a pianta rotonda di Lekit, antico tempio pagano sperduto nel Caucaso, ma la domanda fa da sfondo a tutto questo racconto che fa perdere il lettore nelle meraviglie di un mondo perduto: il regno dell’Albània Caucasica. Probabilmente, se si mettessero cento persone in una stanza e si chiedesse loro cosa sappiano di questa entità politica esistita, il mutismo dominerebbe. Ecco allora che il racconto – da Massari definito saggio, ma che è molto di più, perché dalle pagine emerge la tenacia nella ricerca durata quattro anni, l’amore per quel che vedeva e incontrava, le emozioni provate, compresi i profumi dei cibi, ché nel Caucaso “si sa quando ci si siede a tavola ma non quando ci si alza” – si dispiega fra prati e monasteri, chiese e rovine d’antichi bastioni. Più volte l’autore dice (quasi con timore) di sentirsi come Dumas, che lì viaggiò a metà dell’Ottocento, e in effetti la sensazione trasmessa è quella. A tratti, se non vi fosse l’ampio corredo fotografico a dare testimonianza, parrebbe di scorrere le pagine d’un romanzo. Ma che cos’è questa Albània che niente ha a che vedere con la nostra dirimpettaia al di là dell’Adriatico? Leggiamo: “Nella piana del fiume Cura, fra il Grande Caucaso a nord e il Piccolo Caucaso a sud, si è sviluppato il regno dell’Albània Caucasica. Questo fiume ha definito e identificato la storia dell’antico regno: natura, insediamenti nomadi, lotte intestine fra principi e famiglie nobili, guerre, invasioni di popoli barbari a settentrione (IV-VI secolo d.C), avanzata degli arabi a meridione (VII secolo d.C). Milleduecento anni di storia che hanno lasciato tracce che aspettavano solo che qualcuno desse loro voce. (Matteo Matzuzzi)
Jorge Luis Borges
“L’Aleph” (Adelphi)
Consiglio “L’Aleph” di Jorge Luis Borges, in particolare il primo racconto, “L’immortale”. Un’Odissea metafisica alla ricerca della vita eterna, per poi tornare alla pace e alla mortalità. (Luca Gambardella)
Giovanni Bietti
“Fryderyk Chopin. La musica” (Laterza)
Enrico Deaglio
“C’era una volta in Italia. Gli anni Ottanta” (Feltrinelli)
Per quest’anno, scelta multipla. Tema unico, però: la grande musica. Con “Fryderyk Chopin” (Editori Laterza) Giovanni Bietti, magnifico divulgatore per competenza e passione, racconta le opere e i giorni di uno dei compositori più amati e pure difficili da decifrare. Ne ritrae l’ambiente e il contesto storico, analizza fin dove si può arrivare, e qualche volta necessariamente oltre, le peculiarità di una scrittura unica, che è calcolo e improvvisazione insieme (“Ha fatto parlare a un solo strumento la lingua dell’infinito”, diceva George Sand citata in quarta di copertina). Il libro si conclude con una bella intervista a Krystian Zimerman, interprete chopiniano d’elezione. Altra tappa obbligata tra un 2025 e un 2026 ad alto tasso wagneriano (basterebbero i cicli in corso alla Scala e a Santa Cecilia), “L’Anello di Wagner. Musica e racconto nella tetralogia dei nibelunghi di Giorgio Pestelli” (Donzelli), uscito in una nuova edizione arricchita con un capitolo su “Tristano e Isotta”. Infine, un’opera impegnativa, forse anche definitiva, scritta a più mani nel corso degli ultimi quattro anni e che si presenta in un cofanetto di cinque volumi (venduti anche separatamente) per i tipi della Libreria Musicale Italiana: “Le sonate per pianoforte di Beethoven”, serie diretta da Guido Salvetti sotto gli auspici del Beethoven-Haus di Bonn, ovvero duemila pagine, più o meno, che dicono tutto su uno dei capitoli più affascinanti della storia della musica occidentale.
P.S. Quando la musica è finita, poi, ci si ritrova anche quest’anno all’appuntamento con Enrico Deaglio e il suo “C’era una volta in Italia” (Feltrinelli): con “Gli anni Ottanta” chi ha girato la boa dei sessanta può rituffarsi nel pieno dei propri venti, con tutto quello che gli girava intorno. (Roberto Raja)
Vittorio Manes
“L’imparzialità del giudice nel turbine della ‘giustizia mediatica’” (Editoriale scientifica)
La spettacolarizzazione del caso Garlasco a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno ha confermato, se mai ce ne fosse bisogno, quanto il processo mediatico sia un fenomeno strutturale della giustizia italiana (e non solo). In questo agile volume l’autore, ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, esamina le caratteristiche fondamentali del processo mediatico e il suo singolare rapporto con il concetto di “verità”, per poi condurre un’analisi sugli effetti che questo fenomeno produce sull’imparzialità del giudice (che solo un ingenuo potrebbe ritenere immune da condizionamenti esterni così rilevanti), anche sulla base dei più recenti studi specialistici effettuati in questo ambito. Segue una valutazione delle possibili soluzioni da adottare non tanto per lenire gli effetti negativi del processo mediatico sull’imputato (come ad esempio attenuazioni della pena), bensì per prevenire il rischio di menomazioni dell’imparzialità del giudice, esplorando le misure introdotte in altri paesi. Nella consapevolezza che la posta in gioco è molto alta visto che, come sottolinea Manes, “la fiducia nell’imparzialità del giudice è condizione per la fiducia stessa dei cittadini nella giustizia, e che vale per l’imparzialità quel che vale per tutti i princìpi e, a monte, per i diritti fondamentali: il problema non è quello di fondarli, quanto quello di proteggerli ed attuarli”. (Ermes Antonucci)
Jorge Luis Borges
“L’artefice” (Adelphi)
Lo tengo sulla scrivania, qui al giornale, e lo apro sempre alla stessa pagina. Solo per una pagina. La 34. “El cautivo”. Il prigioniero. Racconta di un bambino che si era perso. I genitori lo cercarono per anni. Inutilmente. Era un indio dagli occhi celesti e un giorno fece ritorno a casa. L’uomo era segnato dalla vita barbara “e non intendeva più le parole della lingua materna”. Entrò nella vecchia casa e senza esitare infilò il braccio nella cappa fuligginosa del camino ed estrasse “il piccolo coltello dal manico di corno”. I genitori piansero perché avevano ritrovato loro figlio. Anch’io come l’indio vorrei sapere se il figlio perduto “rinacque e morì in quell’estasi o se riuscì a riconoscere foss’anche come un bambino o come un cane, i genitori e la casa”. Il libro è “L’artefice” di Borges. (Carmelo Caruso)
Isaac Bashevis Singer
“Ritorno in via Krochmalna” (Adelphi)
Il ritorno è una cura. O di ritorni si muore. In “Ritorno in via Krochmalna”, pubblicato da Adelphi quest’anno dal pozzo che pare senza fondo dell’opera di Isaac Bashevis Singer, Max Barabander compie un lunghissimo percorso da Buenos Aires a Varsavia nella speranza di ritrovarsi nel mezzo di un viaggio nel tempo. Al centro di tutto c’è la Varsavia ebraica, povera, assurda, in cui Barabander arriva per sentirsi a casa, carico di soldi e di bugie. A ogni capitolo viene voglia di perdonare e condannare quest’uomo enorme, infiacchito da un dolore, dagli anni e dai vizi. A ogni capitolo spunta un fantasma, sono gli stessi che vedeva Singer in quelle vie che descrive in ogni angolo, in cui ci butta fra gli odori, i fetori, le gioie, le pazzie, le morti, le preghiere. Leggendo “Ritorno in via Krochmalna”, si vive in via Krochmalna, da spettatori della gabbia di male, sventure e imbrogli che lo sbarbato Max Baranader si costruisce da solo. La barba è la sua tela di Penelope, nell’attesa che cresca si compie la catastrofe. Una catastrofe tale da riderle in faccia. (Micol Flammini)
Carlo Masala
”Se la Russia attacca l’Occidente” (Rizzoli)
Annie Jacobsen
“Guerra nucleare. Uno scenario” (Mondadori)
Due romanzi simili, soprattutto perché sono fictional scenario, partono da elementi realistici, concreti, quasi saggistici, e si sviluppano come in un war game, cioè una storia che affronta un ventaglio di possibilità e che serve anche ai decisori politici per fare delle scelte. Il primo si chiama “Se la Russia attacca l’Occidente”, l’ha scritto l’analista tedesco Carlo Masala (Rizzoli). Immagina un futuro non molto lontano: fra tre anni, dopo che l’Ucraina ha firmato un trattato di pace debole, frettoloso, quando la Russia inizia a rosicchiare territori alla Nato. Il secondo si chiama “Guerra nucleare” e l’ha scritto la giornalista e saggista Annie Jacobsen (Mondadori) inizia con l’esplosione di un ordigno nucleare da 1 megatone sul Pentagono, e spiega meglio di qualunque altro saggio, soprattutto ai nostri pacifinti, che cos’è la deterrenza atomica. . (Giulia Pompili)
Yascha Mounk
“La trappola identitaria” (Feltrinelli)
Leggere “La trappola identitaria” di Yascha Mounk aiuta a rimettere ordine in un dibattito che oggi è spesso confuso, emotivo e polarizzato. Con uno stile chiaro e senza toni apocalittici, Mounk prova a spiegare come una parte della sinistra occidentale abbia pian piano sostituito il linguaggio dei diritti universali con quello delle identità, finendo talvolta per ottenere l’effetto opposto a quello desiderato. Il punto di forza del libro non è la polemica, ma il metodo. Mounk non nega l’esistenza di discriminazioni reali né minimizza le ingiustizie storiche: al contrario, le prende sul serio. E per questo mette in guardia da un approccio che frammenta la società in gruppi sempre più ristretti. Il rischio è che l’identità diventi una gabbia, e quando l’appartenenza conta più degli argomenti e l’esperienza soggettiva più dei fatti, il confronto non può che appiattirsi. E’ una lettura utile anche per chi non è d’accordo con l’autore. Mounk parla a un pubblico che crede ancora nel pluralismo, nella libertà di parola e nella possibilità di convincere l’altro. Un antidoto contro l’intolleranza che fomenta le proteste rumorose che a giorni alterni zittiscono dibattiti, anche nei luoghi dove l’ascolto dovrebbe essere una prerogativa. Il suo libro non offre soluzioni facili, ma invita a recuperare un’idea di politica capace di includere senza dividere, di ascoltare senza censurare, di difendere i diritti senza trasformarli in armi identitarie. (Maria Carla Sicilia)
Alessandro Baricco
”Breve storia eretica della Musica Classica” (Feltrinelli)
Quando intorno all’anno Mille l’Europa incominciò a riprendersi dallo choc provocato dalla caduta dell’Impero Romano, filosofi, pittori, architetti, scultori e poeti trovarono nella cultura greca il canone “classico” che li avrebbe guidati nella rinascita. Ma i musicisti no. Come dice Baricco, “la gente dei suoni dovette fabbricarsi da sé un’epoca classica, perché non l’aveva trovata già fatta. Erano orfani, erano ermafroditi. Dovettero cercare dentro di sé un punto di equilibrio, una soglia di maturità, un’idea di perfezione”. E ci riuscirono dopo secoli di fatica, tra la metà e la fine del Settecento. La “Prima Musica”, come la chiama Baricco, quella che dal “Canto Gregoriano” arriva fino alla metà del XVI secolo era un “andare nelle foreste dei suoni raccogliendo quanto era a portata di mano”; era una musica che esprimeva un ordine, “un tappeto sonoro generato dall’intrecciarsi di diverse linee di canto”. Quella che viene dopo esprime invece “l’età del disordine” da dominare scientificamente. Siamo alla “scienza dei suoni” di Corelli, poi Bach, Haendel, Gluck, Mozart: “una sublime distesa di mandrie addomesticate”, non diversa dai marmi di Fidia, ma che non ha nulla dell’armonia con la natura della “Prima Musica”. E’ appunto la “Musica Classica”, la musica che rivendica “alla disarmonia dell’umano il diritto di proprietà dei suoni”, fondando su quel “diritto” la sua “ambizione a fare del mondo un giardino”. Finché non sarebbe arrivato qualcuno, Igor Stravinskij, “così terribilmente bravo che avrebbe portato il sistema al di là delle proprie possibilità, mandandolo in pezzi”. Fine della storia? Per niente affatto. Ma per sapere perché bisogna leggersi il libro. (Sergio Belardinelli)
Rosa Matteucci
“Cartagloria” (Adelphi)
Evviva Rosa Matteucci, che scrive per farci felici. E lo fa con una lingua bella, come se fossimo ancora in pieno Novecento – nell’eterno Novecento della letteratura che amiamo. In “Cartagloria” (per chi non lo sapesse, cioè i più, trattasi di tabelle liturgiche che stanno sugli altari durante le celebrazioni in rito antico e che servono da promemoria per il celebrante) canta un monologo sinuoso, di eleganza rampicante, che compendia tutti i suoi romanzi precedenti e li porta un po’ più in là. Ci racconta l’infanzia, Matteucci. E un padre sfuggente e balordo. La villa avita che si svuota e la coppa delle ossessioni che si colma. E il bisogno impellente di chieder conto a Dio della propria neglettissima condizione, preannunciata da una comunione infausta con tanto di vomito del corpo di Cristo. La sua scrittura procede per rettilinei e poi risale lungo improvvisi tornanti, si imbizzarrisce e si sbizzarrisce, e il comico è sempre e solo il tragico visto di spalle – basta solo sapere dove mettersi, e Matteucci lo sa, ci gioca sempre, e si mette dentro sé stessa e anche fuori, con identica capacità di guardare e di ritrarre, reinventando l’autobiografia, spernacchiando l’autofiction e scrivendo una poderosa (ancorché sottile) fiction autobiografica, con voce alata, frasi ariose e architettura rigorosa. Una delle poche scrittrici rimasta ostinatamente fuori dallo stagno, sulla superficie del quale galleggiano ombelichi senza letteratura. (Marco Archetti)
Ian McEwan
“Quello che possiamo sapere” (Einaudi)
Tra i libri letti quest’anno, “Quello che possiamo sapere” di Ian Mc Ewan mi ha colpito molto per il rovesciamento di prospettiva: il punto di osservazione è infatti collocato in un futuro distopico, a un certo punto del Ventiduesimo secolo, in un momento in cui tutte le paure che ora affollano in modo vago i nostri discorsi, comprese le news e le fake news, si materializzano. Eccole tutte in fila: dalla grande inondazione alla quasi scomparsa della razza bianca, ma è come se l’inveramento dell'incubo, secondo un copione diverso da quello che scriviamo oggi, scagionasse in qualche modo il “povero” uomo del ventunesimo secolo, descritto con nostalgia e tenerezza nel suo vagare attorno a un piccolo universo di gesti e a una casa simbolo di amore, dolore, vita e morte. Nella vicenda che si dipana attorno a un poema scomparso nel 2014, e nel giallo retrospettivo in cui si immerge lo studioso di letteratura Thomas Metcalfe a un secolo di distanza dagli eventi, si legge il paradosso di un’iperconnessione digitale che sembra non lasciare nulla di segreto, e invece si trasforma in motore di mistero: inaspettatamente tutto quello che è noto, leggibile, chiaro, non è altro che ipotesi, tra studenti che snobbano il passato e professori che lo guardano come un fossile in una teca, e tra isole di un arcipelago fatto di terre un tempo emerse. Solo l’angoscia umana resta eterna, in un ciclo ininterrotto e non interrompibile neppure da una catastrofe annunciata. Ed è come se la retorica sulla fine del mondo imminente venisse spazzata via proprio mentre una grande onda sommerge la Terra, mentre la memoria resiste, come attaccata a un tronco galleggiante, strumento labile di adattamento. (Marianna Rizzini)
Carlo Simonelli
“Una morte eroica” (Battiti Ediciclo)
Visto che il mondo è un casino, meglio non pensare a quello che potrebbe succedere, perché quello che potrebbe succedere odora di disastro. Per questo quando c’è aria di disastro è meglio leggersi un bel giallo. Un po’ perché la morte lì è solo letteraria, un po’ perché non c’è cosa di più vivo del racconto della ricerca di un assassino. E allora regalate e regalatevi “Una morte eroica” di Carlo Simonelli. Per tre motivi: è scritto bene, la trama regge e, spesso, fa sorridere. Anzi, facciamo che i motivi sono cinque: ci sono un sacco di biciclette – la morte è eroica perché è avvenuta all’Eroica, la ciclostorica – e ci sono più parole di quelle che di solito si sentono in giro. E non è male arricchire il vocabolario. (Giovanni Battistuzzi)
Ram V e Filipe Andrade
“Rare Flavours” (Edizioni BD)
Matt Dinniman
“Dungeon Crawler Carl” (Mercurio Books)
Viola Ardone
“Tanta ancora vita” (Einaudi, audiolibro su Audible)
Questo Natale vorrei regalare delle letture leggere: ecco tre consigli che scivolano via come una cioccolata calda. Partiamo da un fumetto. “Rare Flavours – Gusti inconsueti” (Edizioni BD), scritto da Ram V e disegnato da Filipe Andrade, è un viaggio culinario decisamente poco ortodosso, che mescola cucina esotica e personaggi ancora più speziati. La stuzzicante storia di Rubin Baksh, un demone millenario che sogna di diventare il prossimo Anthony Bourdain. Per realizzare la sua visione, ingaggia Mo, un regista che ha visto giorni migliori, perché documenti la grandezza della cucina indiana. Ma dietro ogni ricetta affiorano storie, segreti e frammenti del passato, alcuni più oscuri e indigesti di altri. Vale l’assaggio. Poi un LitRPG (gioco di ruolo letterario) che è puro delirio controllato: “Dungeon Crawler Carl” (Mercurio Books) di Matt Dinniman. Il pianeta Terra collassa e diventa un folle mondo sotterraneo. I sopravvissuti devono combattere per intrattenere un pubblico alieno. Avventure assurde, umorismo demenziale e ritmo da videogioco. E un protagonista che affronta mostri epici... in mutande. Impossibile non affezionarsi. Chiudiamo con la “lettura” più comoda del mondo: l’audiolibro. “Tanta ancora vita” di Viola Ardone per Einaudi è adesso su Audible. Un romanzo contemporaneo e intenso: una donna che ha perso un figlio accoglie un bambino ucraino in fuga. Guerra, dolore, speranza e la possibilità di ricominciare. Narrato così bene che puoi ascoltarlo anche mentre lavi i piatti del cenone. Mescolando le lacrime alla schiuma dello Svelto. (Enrico Cicchetti)
Eva Illouz
“Modernità esplosiva” (Einaudi)
Applicare il filtro emotivo per giudicare una realtà sempre più inafferrabile può sembrare una scommessa ardita. Eppure, a giudicare dalla lettura del saggio della sociologa franco-israeliana Eva Illouz, “Modernità esplosiva” (Einaudi), forse è il modo concretamente più lucido per scandagliare il “disagio della civiltà delle emozioni”, come da sottotitolo. E' attingendo a una variegata gamma di emozioni, dalla speranza all'ira fino all'invidia e alla gelosia, che spiega un vasto campionario di ambiti molto disparati: da quello economico al politico fino al sociale. Lo si può leggere come un grande romanzo, ché del resto procede per tutto il testo con dotte citazioni letterarie (da Guy de Maupassant a Nabokov fino ad Adam Smith). E ci si può soffermare sugli aspetti che più colpiscono: nel caso di chi scrive più della rabbia e la nostalgia come sentimenti che danno sostentamento al riemergere dei nazionalismi, la speranza come indefinito carburante che muove le leve della psicologia dell’autoaiuto o di interi settori economici come le app di dating (non fatevi fregare). A ogni modo, con una bibliografia che merita un capitolo a parte, fa venire voglia di aprire altre finestre leggendo altri libri. Che poi è quello che fanno i buoni saggi. (Luca Roberto)
Alberto Moravia
“Un’idea dell’India” (Bompiani)
Pier Paolo Pasolini
“L’odore dell’India” (Garzanti)
Dopo essere tornati dal loro viaggio in India, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini pubblicano i loro reportage in due libri: “Un’idea dell’India” e “L’odore dell’India”. Nessuno dei due menziona la data di partenza, ma in una lettera datata 31 dicembre 1960 Pasolini scrive: “Adesso vado in India, ci sto un mese e mezzo”, per il centenario della nascita del poeta Tagore, che lo stesso Pasolini chiama un pretesto. Più tardi li raggiungerà a Calcutta Elsa Morante, moglie di Moravia ancora per pochi mesi (si separeranno subito dopo l’uscita del libro). E’ il loro primo viaggio insieme fuori dai confini europei, appena arrivati festeggiano capodanno per le strade di Bombay, e sin da subito emergono due prospettive completamente diverse, “tra Pasolini e me c’era divergenza sul Terzo mondo”, dirà successivamente Moravia. Il primo cerca un’idea, il secondo l’odore: “Siamo ambedue andati in India senza programmi. E’ l’India in realtà ad essere ‘programmata’, cioè ad essere un paese di una violenta originalità che costringe il viaggiatore a ‘prendere posizione’. La mia posizione è quella di accettare ma non identificarmi, quella di Pasolini, come del resto in tutta la sua vita, di identificarsi senza veramente accettare”, dice in un’intervista a Renzo Paris. Festeggiate capodanno in India, regalando un viaggio di ritorno agli anni Sessanta in compagnia di una coppia di scrittori. Impacchettate i due libri separatamente, poi uniteli in un unico pacchetto. Se volete rendere il regalo unico aggiungete in mezzo un biglietto per l’India, regalate un’idea e l’odore. (Priscilla Ruggiero)
Andrea Cuman e Cristian Confalonieri
“Atlante dei giochi da tavolo” e “Atlante dei videogiochi” (Topic)
Nata proprio nel nostro paese nel XVIII secolo e clonata nel mondo anglosassone col nome di bingo, la tombola giocata in famiglia è in Italia è una istituzione natalizia, almeno quanto il Presepe o l’Albero di Natale. Ma oggi è spesso sostituita da sempre più varianti alternative. Nuovi classici, come Mercante in Fiera, Cluedo, Monopoli o Risiko, possono però a loro volta avere antecedenti antichissimi. Il Risiko, ad esempio, è un gioco di simulazione bellica secondo una tradizione che inizia nel 200 d.C. in India col chaturanga: “Esercito composto da quattro elementi”. Fanteria, cavalleria, carri da guerra e elefanti, che a fine Medio Evo in Europa diventano i pedoni, cavalli, torri e alfieri degli scacchi. Questa e altre storie ce le racconta l’“Atlante dei giochi da tavolo”: libro del 2024 per Edizioni Topic a firma Andrea Davide Cuman e Cristian Confalonieri. Sempre Topic quest’anno ha raddoppiato l’offerta con un “Atlante dei videogiochi”, sempre a firma degli stessi autori. In postfazione del primo libro si ricorda che a Natale quando apri un regalo “nel caso dei giochi da tavolo la sorpresa è doppia”. Anche questi due atlanti possono fare assieme una doppia sorpresa. (Maurizio Stefanini)
Davide Bregola
“Lezioni dalle rovine. Leggere, scrivere, vivere” (Avagliano).
Per il titolo che mi ha subito ricordato un verso dei Cantos: “Dalle rovine d’Europa, ego scriptor”. E io sono uno scrittore che scrive dalle rovine d'Europa, proprio come Pound. Per il sottotitolo che è il programma perfetto del letterato quale mi ritengo e sempre più voglio essere. Per la foto di copertina, strapadana, ghirriana. Lo consiglio? Sì, ma solo a lettori poundiani ghirriani. (Camillo Langone)
Stefan Zweig
“Casanova” (Settecolori)
Giacomo Casanova ha compiuto trecento anni. E da quest’anno, insieme a Sutherland e alla statua Venusia di Cinecittà, per noi sarà sempre il “Casanova” di Stefan Zweig (ed. Settecolori, traduzione di Matteo Galli). Sarà sempre l’uomo che “ha reso felici molte donne ma nessuna isterica”. E che forse solo con la prosa perfetta di Zweig ha vinto l’implacabile sfida con il cattolico, hidalgo sadico, Don Giovanni. “Goditi l’attimo”, dice Casanova, porco tragico del gregge di Epicuro. “Vivi ogni momento. Succhialo come un grappolo d’uva e getta i chicchi ai porci”. Appunto. Dal secolo più bello – il Settecento dei “costruttori del mondo” – Zweig non sapeva se scegliere lui oppure Rousseau. Al buon selvaggio, ha preferito il salottiero. Alla pedagogia, l’immoralismo. All’Emilio, dunque, l’uomo di mondo. Il filosofo che, immune dall’utopia, oggi compie trecento anni. Auguri. (Ginevra Leganza)
James Hillman
“Puer aeternus” (Adelphi)
Ce lo impone la demografia. In un paese vecchio, ma terribilmente infantile, c’è una lettura urgente da fare. Inguaribili Peter pan tenetevi pronti e risparmiate 12 euro per acquistare – se non lo avete già fatto, parliamo pur sempre di grandi classici – “Puer aeternus”, un agile libello che dal 1999 è pubblicato da Adelphi. Riporta due saggi-conferenze di James Hillman, psicoanalista jungiano e padre della psicologia archetipale, che risalgono alla metà degli anni 60, ma sono quanto mai attuali. Il primo si concentra sul tema del tradimento, mostrando come quello che ci appare troppo spesso solo come una ignominia morale abbia in realtà un fondamentale ruolo nell’evoluzione psichica. Il secondo, invece, riguarda proprio il puer aeternus, l’archetipo dell’eterna giovinezza. Nella trattazione – con un linguaggio non sempre semplicissimo – Hillman ricompone l’archetipo che non è solo quello del puer, ma quello del puer-senex . Inscindibile se si vogliono evitare nevrosi, individuali e sociali. Se il puer è immaginazione, creatività, libertà e apertura al possibile, il senex è invece saggezza, ordine, fatica, responsabilità, radicamento e stabilità. Se il puer prende troppo il sopravvento si scade nell’infantilismo, nell’inconcludenza, in entusiasmi passeggeri destinati a non generare frutti. Dall’altro lato, quando il senex degenera, prevalgono il cinismo e la crudeltà, l’autorevolezza decade in autoritarismo, l’ordine in aridità. Solo quando i due archetipi, che in realtà sono appunto uno solo, sono tra loro bilanciati le cose funzionano davvero: il desiderio non resta infecondo e la conoscenza non degrada in disincanto. Vale per gli individui, e vale anche per la società, sbilanciata nella demografia certo (verso la senilità), ma anche nelle psicologia (verso il puer), con troppi giovani che faticano a diventare adulti e troppi vecchi che rifuggono dal ruolo di padre e maestro. Insomma, vecchi italiani, cerchiamo di essere un po’ infantili, non è per forza un male, ma vediamo di non esagerare. (Gianluca De Rosa)
Carlo Galli
“La tecnica” (il Mulino)
La tecnica, come recitava una celebre pubblicità di qualche anno fa, è tutta intorno a noi. Nulla è al di fuori della tecnica, se non forse l’essenziale, ma questo è un altro discorso. Tutto ciò che l’uomo fa, ogni sua azione, è un agire tecnico perché viene fatto attraverso strumenti che intensificano le nostre stesse possibilità di azioni. Con ogni avanzamento tecnico, ogni nuova strumentazione moltiplica di molte volte l’intensità delle nostre azioni, fino a rendere l’uomo un superuomo, fino a far sprigionare per fusione nucleare, attraverso gli isotopi dell’idrogeno, la stessa potenza delle stelle. Queste forme della tecnica, nella loro radicalità, ci sono apparse sempre “governabili” dalla politica: il mondo, per dire, è stato segnato per decenni dall’equilibrio atomico. Oggi, con la nuova frontiera della tecnica, quella dell’intelligenza artificiale, un tale tentativo di dominarla appare risibile. Nominiamo una bella commissione etica dell’intelligenza artificiale? E poi un comitato di saluto pubblica per indirizzarla? Eppure, un filosofo politico come Carlo Galli, nel suo ultimo interessante volume intitolato “Tecnica” (il Mulino) sembra auspicare un tale “ritorno della politica” necessario a dominare l’intelligenza artificiale. Si legga il volume per farsi un’idea, ma una tale speranza, perché per Galli è tale, appare piuttosto ottimistica, per non dire illusoria. Bisognerà iniziare a pensare che le forze generate dall’intelletto umano, e dalle forze ctonie del capitalismo, siano per loro stessa natura “ingovernabili” in senso classico. Questo non significa anarchia, ma nuovi ordini che ancora non sono emersi. (Michele Silenzi)
Byung-Chul Han
“Vita contemplativa. O dell’inazione” (Nottetempo)
Il fatto è che, più che leggerli, io i libri che mi conquistano tendo a frequentarli con la calma che si riserva alle relazioni preziose, con quella quiete che le cose realmente importanti – quali ad esempio giocare con i bambini o guardare attentamente gli alberi – necessariamente richiedono. Un luogo di riflessione contro la diffusa frenesia dell’agire si trova in un volume uscito due anni fa, “Vita contemplativa. O dell’inazione” del filosofo Byung-Chul Han (Nottetempo, 2023). L’autore, in queste pagine dal titolo apparentemente austero eppure così scorrevoli alla lettura, mostra quanto ingannevole ed illusoria sia l’apparente prevalenza del fare rispetto all’essere, conducendo il lettore a scoprire che l’inazione “non è una debolezza, una mancanza, bensì un’intensità”: quella di chi è teso a recuperare la densità dell’istante, la profondità del dettaglio, la vertigine che ogni attimo cela in sé. Solo “l’inazione spalanca le porte al segreto dell’esistenza”: è lì che il soggetto ritrova uno sguardo perduto e la quotidianità riacquista spessore. In un tempo in cui l’attivismo del fare tende a ridurre l’essere umano ad animal laborans, queste pagine, così come il precedente volume intitolato “Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose” (Vita e pensiero, 2017), appaiono come un promemoria prezioso. In gioco c’è la possibilità dell’esperienza, quella profondità inaspettata di ogni istante che emerge ad un tratto se solo abbiamo la disponibilità a fermarci e osservare. (Stefano Picciano)
Romanzi di autori ignoti pubblicati da piccole case editrici
Non uno specifico libro, bensì una tipologia. Si è infatti verificato un progressivo rovesciamento nelle gerarchie editoriali, per cui più un autore è celebre (specie per meriti extra-letterari) peggio sarà scritto il suo libro, e più un marchio è grande più andrà sul sicuro nel seguire gli standard commerciali. Le piccole case editrici, che un tempo venivano fatalmente caratterizzate dalla sciatta sequela di modelli elevati, oggi invece costituiscono spesso l’avanguardia della narrativa sperimentale e il rifugio di chi non legge per addormentarsi. Fermo restando che questa norma incontra le sue eccezioni luminose od oscure, per Natale si può provare a comprare in questo solco. Alla rinfusa, mi sono piaciuti molto Storia dei miei peli di Lavinia Mannelli (66thand2nd), Un eroe dei nostri tempi di Enrico Trevisiol (Accento), Il concorso di Sara Mesa (La Nuova Frontiera), Corpi di Cristo di Massimo Cracco (Italo Svevo) e, forse il più bello di tutti, Vedove di Camus di Elena Rui (L’Orma). Sono storie molto diverse, per tono e contenuto, ma col comune intento di scardinare la forma-romanzo, provare a giocarci e vedere cosa viene fuori, assumendosi con gioia il rischio dell’errore. Se un regalo dev’essere una sorpresa, quale miglior soluzione di pagine che ci condurranno dove non riusciamo a prevedere? Se invece si vuole per forza comprare qualcosa che faccia esattamente quanto è scritto sull’etichetta, ci sono i barattoli di vernice, le bottigliette di pelati, i libri inchiavardati nella classifica dei più venduti. (Antonio Gurrado)
Carlo Emilio Gadda
”Norme per la redazione di un testo radiofonico” (Adelphi)
“La sopportabilità massima del parlato-unito, in Italia, è di quindici minuti”. Carlo Emilio Gadda lo scrive negli anni 50 in un testo che circola fra gli autori e collaboratori Rai, in allegato al contratto. Alla soglia del 2026 possiamo affermare che quella sopportabilità si sia accorciata di brutto. C’è chi parla addirittura di una soglia dell’attenzione ormai inferiore ai 10 secondi. Ecco dunque come un libello apparentemente severo e didattico su cosa fare (e soprattutto cosa evitare) quando si scrive un testo per la radio, si trasforma in un utile strumento per imparare a veicolare il proprio messaggio nel modo più efficace e completo possibile. Regalate questa bella riedizione di Adelphi all’amica logorroica che vi srotola i suoi aneddoti in messaggi audio lunghi come un mediometraggio. Fatelo trovare sotto l’albero di quell’amico che ama complicare una spiegazione veloce e indolore inzuppandola di parole inglesi, latinorum e virtuosismi tecnici col solo scopo di farvi sentire ignoranti. Ma soprattutto, infilatelo di nascosto fra le fessure delle porte di ogni ufficio pubblico (è molto sottile, tranquilli) nell’ingenua speranza che, almeno per una volta, il burocratese lasci spazio a un po’ di sana semplicità. (Riccardo Carlino)
Debora Gambetta
“Incompletezza. Una storia di Kurt Gödel” (Ponte alle Grazie)
Non esiste differenza tra una formula matematica e una frase. Entrambe si basano su una serie di segni che significano altro, sono linguaggi simbolici. Ma dietro i simboli si nascondono sempre storie di ossessioni e di creazioni perché “i matematici, come gli scrittori, plasmano mondi”. E’ questo il nucleo attorno cui Debora Gambetta ha costruito “Incompletezza. Una storia di Kurt Gödel”. La biografia edita da Ponte alle Grazie, è stata tra i dodici finalisti del Premio Strega 2025. Il libro racconta la vita di uno dei più grandi matematici del Novecento, che aveva sposato una ballerina di cabaret e che è stato definito dal collega John von Neumann “il più grande logico dai tempi di Aristotele”, capace a soli ventiquattro anni di risolvere un dibattito matematico-filosofico che si protraeva da oltre un trentennio. Ma perché, vi starete chiedendo, leggere la sua storia? Forse perché sfogliare le pagine di questo libro permette di vedere come in tutti gli esseri umani ci siano gli stessi moti dell’animo e che in fondo, nonostante le differenze esteriori, siamo tutti uguali. La vita di Gödel attraversa tutto il secolo scorso. Nasce nel 1906 a Brno, nell’odierna Repubblica Ceca, e assisterà suo malgrado a molte delle ombre che hanno oscurato il XX secolo: ma sono fatti che conosciamo dalla cronaca, Gambetta attraverso il suo romanzo-biografia ha cercato invece di ritagliarsi un luogo immaginario in cui poter svelare e comprendere cosa ha provato nella sua intimità una delle personalità più importanti del mondo scientifico. (Alessandro Villari)
Jens Stoltenberg
“Nella stanza dei bottoni. 10 anni alla guida della Nato” (Laterza)
Manuel Sirianni
“Il bambino irraggiungibile” (Bompiani)
Jens Stoltenberg è stato segretario dell’alleanza atlantica da ottobre 2014 fino a ottobre 2024. Nel libro racconta le riunioni con i leader europei, le visite alla Casa Bianca e, naturalmente, il caratteraccio imprevedibile di Donald Trump. Per chi è appassionato di diplomazia e di retroscena mai catturati dalle telecamere che si possono raccontare solo anni dopo, “Nella stanza dei bottoni” è un tesoretto. L’ex primo ministro norvegese, attraverso le sue emozioni (e anche i suoi errori), racconta tutto il processo che oggi ha portato l’Amministrazione americana a considerare la Nato non più la priorità della sua politica estera.
In aggiunta, una storia che può cambiare lo sguardo delle persone sulle vite degli altri. “Il bambino irraggiungibile: Storia di un ragazzo autistico non verbale ma pensante” racconta la storia di Manuel, che a 18 mesi dalla sua nascita smette improvvisamente di parlare. L’autismo lo chiude nel silenzio. Ciò che è impressionante, però, è che lui comprendeva tutto del mondo intorno a lui, ma non riusciva a comunicare nulla. Le difficoltà a scuola e in casa nel non riuscire a far capire che lui c’era, che era vivo e lucido, vengono tradotte spesso in grida e urla. Quasi a dire “ma io vi capisco!”. Fino a che, a 9 anni, una maestra ha l’intuizione di mettere davanti a Manuel la tastiera di un pc: da quel momento la scrittura è il suo modo per parlare al mondo. Lui si descrive come un “come un naufrago tornato da un lungo esilio”. Quanto è forte la tentazione di fermarsi a quelle urla e non guardare a ciò che potrebbe esserci dietro. Questo accade sia quando affrontiamo il silenzio di una persona autistica, etichettandola sin da subito come malata, sia quando emettiamo sentenze come dei boia su atteggiamenti strani e incomprensibili da parte di chi abbiamo davanti, che spesso, invece, sono solo risposte a situazioni di dolore o tristezza. (Federico Giorgetti)
Angus Deaton
“La grande fuga” (il Mulino)
Il futuro dell’Italia oscilla tra recessione e crescita dello zero virgola. L’istruzione finanziaria italiana è tra le più basse nell’Eurozona. Dunque, cosa c’è di meglio se non far trovare, sotto l’albero di natale, un libro di economia che non sembri un corso intensivo di modelling economico? Eccolo qui “La grande fuga” di Angus Deaton. Deaton non è uno qualunque: è il Premio Nobel per l’Economia del 2015. E la bravura dell’economista si vede proprio dal suo stile: scrive con calma, senza fare il profeta e senza vendere la salvezza del mondo o la soluzione a tutti i mali. Il libro parte da una domanda molto democratica e davvero poco accademica: perché in certi posti si vive di più, meglio e con più opportunità, e in altri no? La risposta, ovviamente, non è verticale. All’interno del suo ragionamento Deaton mette dentro il tema della salute, della ricchezza e delle disuguaglianze, della crescita, e così via. Sono macro temi vastissimi, ma raccontati senza usare un gergo tecnico e incomprensibile. Allo stesso tempo l’autore è chiaro: “guardiamo i dati e smettiamola di raccontarcela da soli”. Non è un libretto motivazionale e nemmeno è un rosario ideologico. Piuttosto, è un saggio serio che si fa leggere proprio perché non ha la pretesa di risolvere tutti i mali del mondo. Ma soprattutto, si distingue per gli spunti che offre: non c’è una morale definita, ma invita il lettore a riflettere lasciando un dubbio ben ben definito; esattamente quello che voleva fare. E che, ai tempi di oggi, è molto più utile di pensare di avere ragione, punto. (Davide Mattone)