IA tra menzogna e verità

  • Postato il 24 dicembre 2025
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  • Di Il Vostro Giornale
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Generico dicembre 2025

“L’intelletto, come mezzo per la conservazione dell’individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attraverso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per l’esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità”. Come non riconoscere la particolarissima scrittura di Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale. Senza avventurarci nell’affascinante esegesi del testo, sempre alla ricerca di un “pensiero altro”, mi preme precisare che nemmeno la citazione di apertura di queste righe può essere considerata l’affermazione dell’esistenza ontologica della verità, mi sembra indichi più peculiarmente la necessità di una propensione onesta verso di essa proprio a seguito della consapevolezza di quanto “l’arte della simulazione”, e quanto ne consegue, raggiungano il loro “culmine” nella moltitudine di esseri umani rappresentati nelle proposizioni di cui sopra. Per dirla con le parole di Costanzo Preve “La verità è […] unità di ontologia e di assiologia”, ma non ci addentriamo in riflessioni sulla “fallacia naturalistica”, piuttosto ci piace ribadire che non è corretto presupporre una sorta di coincidenza tra ontologia ed epistemologia e, esplicitando il concetto dalla sua formulazione per addetti ai lavori, sottolineare che un conto è affermare che conosciamo tramite esperienza e ragione, altro sostenere che il tutto sia regolato dalle strutture della ragione e dalle caratteristiche che rendono possibile l’esperienza.

Proviamo a essere ancora più espliciti: la nostra possibilità di fare esperienze e, successivamente, di conoscere, consiste nel raccogliere informazioni sul mondo fuori di noi e, ancora più complesso, su noi stessi, attraverso gli strumenti dei cinque sensi; questo significa che ciò di cui facciamo esperienza è la totalità dell’esperibile o solo quella parte della quale possiamo essere informati utilizzando gli strumenti di cui disponiamo? Domanda retorica, evidentemente se fossimo privi di un senso o dotati di uno ulteriore la realtà ci apparirebbe diversa e non sarebbe giustificabile la pretesa di un “accesso alla natura ontologica dell’essere”. Ulteriore elemento sul quale riflettere è: il tutto è razionale o lo rendiamo tale nella sua parte alla quale abbiamo accesso poiché per noi è impossibile ogni altra forma di conoscenza? La questione si inerpica sempre più, ma la riportiamo alla realtà quotidiana, come sempre in queste righe, riflettendo su alcune esperienze che, credo, siano occorse a tutti: vi è mai capitato di tornare in un luogo che, pur non essendo cambiato, vi è sembrato decisamente diverso? O, forse meglio, di osservare una persona e scoprirla profondamente diversa da come l’avete sempre vissuta? O, più semplicemente eppure con effetto ancor più corroborante per la nostra tesi, leggere un libro o vedere un film a distanza di anni, fenomeni che devono necessariamente essere rimasti com’erano, e scoprirli ben altro da ciò che ricordavate? Insomma, inevitabilmente stiamo facendo esperienza del panta rei eracliteo, esperienza che dovrebbe invitare alla modestia e aiutarci a deporre l’arroganza tipica dei mediocri che si sentono depositari di assolute e immutabili verità ricordando le parole di Esopo: “Più piccola la mente più grande la presunzione”.

Con l’espressione “arroganza della verità” possiamo indicare ciò che, molto spesso, non è altro che l’ incapacità di vedere la verità altrui e il suo perenne errare camaleontico nel tempo e nello spazio, la presunzione di avere delle definitive verità in tasca da ostentare, da esibire, da imporre. La verità arrogante è figlia del giudizio presuntuoso, la capacità di non capire che non esistono fatti ma solo la nostra percezione degli stessi, dà inizio al precipitare sul piano inclinato del rancore, della supponenza, dell’incomprensione, del ritenersi in diritto di giudicare e punire. Eccoci divenuti innumerevoli piccoli e fastidiosi Robespierre, e il pensiero ritorna al caro abissale Immanuel Kant che subito ha colto, nel dittatore francese e in chiunque ne ripercorra il cammino anche nel più minuto quotidiano, la cancerosa metastasi del fanatismo. Ebbene, oggi viviamo nell’epoca del fanatismo anche se imbellettato e mimetizzato, figli dell’arroganza di chi pensa di poter recidere i ponti col passato, abbiamo assistito gongolanti alla morte di Dio, alla scomparsa delle ideologie e, elegantemente vestiti a lutto, abbiamo partecipato alle esequie delle idee senza renderci conto che l’immenso vuoto, lasciato dalle ingombranti dipartite, è stato colmato surrettiziamente dal nulla pneumatico del democraticissimo “uno vale uno” che ha ridotto i più a non tentare nemmeno di valere almeno due. Ecco comparire fenomeni come il bullismo virtuale, l’attività insonne di squallidi odiatori, i figli del risentimento che elegantemente anglicizzati divengono haters, la tracotanza del numero che misura la qualità con i like e conferma la cancrena celebrandola attrraverso la modernissima patologia del cliccatore seriale. “Il mio ultimo post ha raggiunto le mille visualizzazioni, ma allora ho scritto qualcosa di geniale”! Che malinconica rinuncia alla vita e al confronto.

L’andamento ondivago della rete sull’altalena della vanità è oggi sospinto dalle robuste braccia dell’IA, ma che importa? In fondo ciò che conta non è la corrispondenza tra la narrazione e il fenomeno ma tra ciò che viene divulgato e i preconcetti del fruitore. Ecco che il nuovo padrone, l’algoritmo, sceglie per noi, ci conferma e ci blandisce offrendo certezze pre confezionate nelle quali lasciar definitivamente assopire il senso critico, la libera curiosità, l’alternativa verso la quale rivolgerci con assunzione di responsabilità. Figli di pregiudizi, che non sappiamo riconoscere come genitori, ci aggiriamo con il nostro bastone bianco convinti di possedere una vista da aquila e il territorio paludoso della rete ci tutela da impatti dolorosi, gli effetti di questa sorta di infinita stanza dalle pareti imbottite sono riconoscibili anche nel cascame quotidiano. La verità è oramai la gomma da masticare acquistabile in ogni grande magazzino della virtualità, tutti la titillano tra i denti, la insalivano e la riconoscono come propria senza ingerirla, senza sputarla, rigirandola tra i denti del più folle solipsismo, gustandone il particolare aroma chimico preparato per ognuno e autocelebrandosi nell’arroganza etica della convinzione di essere i giusti. E ora basta premesse, parafrasando parole fin troppo abusate eppure ancora imprescindibili, chi ha orecchie per intendere… si assuma la responsabilità di farlo: ha ancora senso parlare di menzogna e verità? La natura profondamente etica di una simile distinzione ha fatto nascere le grandi dittature, in altri casi ha indotto al martirio e alla celebrazione postuma, nella vita comune di noi semplici abitanti di questo tempo, ha generato piccoli giudici feroci che si aggirano con l’indice sollevato meritandosi, a mio avviso, l’innalzarsi a risposta del dito successivo. Quanto veggente il pensiero di Nietzsche ancora in Menzogna e verità: “Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l’impulso alla verità: giacché noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti”. Eppure, ancora una volta, ribadisco la mia incrollabile fiducia nel coraggio dell’essere umano, ancora ho la folle speranza che l’uomo impari che non esistono assi cartesiani della morale ma solo il loro intersecarsi, tanto arbitrario quanto impavido, che è il valore di ogni uomo che sa evitare di giudicare per consentirsi al libero umanissimo piacere della conoscenza.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.

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