«Il buio non è finito»: dieci anni dopo il Bataclan, la minaccia dello Stato islamico continua a mutare e colpire
- Postato il 13 novembre 2025
- Di Panorama
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Il 13 novembre 2015 resta inciso nella memoria collettiva francese come la notte più nera, cinque ore in cui Parigi fu trasformata in un campo di battaglia dai commando dell’Isis. Dallo Stade de France ai bistrot del nord della città, fino alla mattanza del Bataclan, i terroristi seminarono morte tra persone sedute ai tavolini o radunate per ascoltare musica. Novanta giovani vennero massacrati nella storica sala concerti, mentre altrove le raffiche di kalashnikov colpivano chiunque si trovasse sulla traiettoria. La capitale non ha mai dimenticato quella sequenza infernale: ognuno ricorda dove fosse quando arrivarono le prime notizie, quali amici fossero in strada, quali familiari non rispondevano al telefono. Una mite sera d’autunno si trasformò in un incubo: allo Stade de France si giocava un’amichevole di lusso, e nel cuore dell’XI arrondissement i locali erano pieni di ragazzi.
Alla fine si contarono 137 morti e 416 feriti. Otto terroristi vennero neutralizzati quella notte, altri parteciparono alle fughe e agli scontri successivi. Parigi ascoltò per ore il suono incessante delle sirene e vide in tv immagini confuse, prive di spiegazioni. Dieci anni dopo, nessuno vuole lasciar svanire il ricordo di quelle ore. Il massacro iniziò con le esplosioni fuori dallo Stade de France: tre attentatori, incapaci di superare i controlli, si fecero esplodere uccidendo un autista di pullman parcheggiato all’esterno. L’allora presidente François Hollande fu evacuato mentre, pochi chilometri più a sud, i primi colpi risuonavano tra i locali di Rue Bichat e Rue de Charonne: «La bonne bière», «La Belle Équipe», «Le Carillon». Ogni sopravvissuto conserva un racconto diverso: chi festeggiava il compleanno di un amico mai tornato, chi si trovava lì per caso, chi si salvò per un ritardo inatteso. Molti di loro pero’ non sono mai piu’ tornati alla vita di prima.
Intanto, al Bataclan, almeno tre francesi radicalizzati nelle banlieue aprirono il fuoco sul pubblico, trasformando il concerto in una trappola. Per tre interminabili ore, gli spettatori vissero nascosti sotto i cadaveri, fingendo di essere morti, mentre i terroristi dialogavano con le teste di cuoio alternando minacce e propaganda. «Lo facciamo per vendicare i bombardamenti sulla Siria», ripeterono più volte. A notte inoltrata le forze speciali fecero irruzione. Due attentatori azionarono i giubbotti esplosivi. Una carneficina. Hollande parlò in diretta nazionale: «È un orrore», dichiarò lo stato d’emergenza e ordinò la chiusura delle frontiere. Dei membri dei commando, solo Salah Abdeslam sopravvisse, arrestato mesi dopo e poi condannato all’ergastolo. Oggi dice di voler incontrare alcune vittime ma la sua personalità resta un mistero cosi’ come molte cose di qual giorno. Ad esempio: quanti erano davvero gli uomini del commando? Solo dieci? Impossibile. Oggi Parigi commemora quel trauma inaugurando il «giardino della memoria del 13 novembre» e il governo ha innalzato l’allerta, temendo nuovi attentati. Emmanuel Macron si fermerà in raccoglimento davanti ai locali colpiti, al Bataclan e allo Stade de France.

Eppure, nonostante commemorazioni e misure di sicurezza, l’Isis non è scomparso. Non lo era nel 2015, non lo è oggi. La sua capacità di rigenerarsi, mutare strategia e sfruttare il caos continua a rappresentare una seria minaccia. Il Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM) ha reso noto che solo nell’ultimo mese sono state condotte oltre venti operazioni con le forze partner in Siria, portando alla cattura o all’eliminazione di 24 miliziani. «Continueremo a colpire i residui dell’Isis per impedirne la ricostruzione e l’esportazione della violenza», ha dichiarato l’ammiraglio Brad Cooper. Nonostante le sconfitte del passato, compresa la perdita di Raqqa e Mosul, cellule dormienti continuano a compiere attentati in Siria e in Iraq, sfruttando il vuoto di potere e la fragilità delle istituzioni.
La minaccia va però ben oltre il Levante. In Asia Centrale, la provincia del Khorasan ( ISKP) è oggi una delle articolazioni più aggressive dell’organizzazione: attacca i Talebani, recluta giovani tra Tagikistan e Uzbekistan e tenta di colpire obiettivi internazionali, come dimostrano recenti operazioni sventate. In Africa, l’Isis è presente in almeno una decina di Paesi: Sahel, Mozambico, Somalia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo. Qui conduce una guerra sanguinosissima sia contro gli eserciti locali sia contro le fazioni legate ad al-Qaeda. È una competizione interna al jihadismo, una lotta fratricida per territori, risorse illegali e influenza sulle popolazioni. E sono i civili a pagare il prezzo più alto: villaggi rasi al suolo, sfollamenti, estorsioni, massacri quotidiani.
La galassia dello Stato islamico non ha più un califfato territoriale, ma non per questo è meno pericolosa. Ha semplicemente cambiato forma, adattandosi ai conflitti locali dalla Siria al Niger, dall’Iraq al Mozambico, dall’Afghanistan fino alla fascia centroasiatica. Dieci anni dopo Parigi, il mondo scopre che l’orrore di quella notte non appartiene al passato: è ancora parte del presente. L’Isis non è stato sconfitto. È disperso, evoluto, camaleontico. E continua a colpire là dove l’attenzione internazionale si abbassa, rigenerandosi nelle pieghe degli Stati fragili. Questa è la verità più amara che emerge dalle commemorazioni del 13 novembre: la sicurezza conquistata a caro prezzo richiede memoria, vigilanza e consapevolezza che il jihadismo non è un capitolo chiuso, ma una minaccia che si adatta e sopravvive.