Il caso Venezi alla Fenice: alla Fenice: una lezione sul limite dei Compagni e della sinistra

  • Postato il 10 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Sul caso di Beatrice Venezi, esploso nei giorni scorsi dopo la sua nomina a direttore del teatro La Fenice di Venezia, sono tornate per un momento le vecchie, aspre contrapposizioni tra destra e sinistra. Non si perdona alla musicista di non appartenere al mondo culturale di sinistra e avere anzi più volte dichiarato la sua preferenza per i valori della destra.

E non si perdona la sua vicinanza a Giorgia Meloni. Partendo da questo pregiudizio si distrugge tutta la sua competenza, il suo curriculum, la sua credibilità in campo musicale. Non ripeterò le cose che molti hanno detto e scritto su questa nomina, sulla campagna di linciaggio e denigrazione che è scattata e non farò nemmeno paragoni con altri incarichi, altre vicende. Colgo invece l’occasione di questa nuova caccia al nemico da abbattere per risalire ai residui ideologici su cui si fonda e capire quanto pesano oggi e in che modo.

Destra e sinistra sono due culture politiche storicamente imperniate sul conflitto. Soprattutto in Italia dove furono caricate dell’eredità storica, militante e ideologica del fascismo e del comunismo, furono concepite all’insegna della contrapposizione radicale. Non mancarono, certo, attraversamenti, incroci e confluenze, ma la loro opposizione si è sempre nutrita di uno spirito di negazione che è una forma permanente di conflitto civile, anche freddo e non direttamente violento. Destra e sinistra furono la continuazione della guerra con altri mezzi. E l’abuso stesso dell’obsoleta etichetta di “fascisti” lo conferma.

Di quelle due categorie ideali e ideologiche, si sa, è rimasto ben poco nel nostro presente, perché scarse e stinte sono le identità politiche. Tuttavia un’impronta è rimasta, o forse un imprinting, di quella animosità originaria, e risale ogni volta che reciprocamente si accusano di predicare e praticare l’odio, il disprezzo e l’intolleranza. Anche nella loro versione più fluida e meno militante, come per esempio nel magmatico mondo social, permane quella rappresentazione ostile e drasticamente negativa che accompagna la denigrazione del “nemico”. Sono rimaste in eredità e in circolo una forma specifica di ostilità tipica della destra e una forma specifica di ostilità tipica della sinistra. A destra, si sa, è frequente la denuncia dell’egemonia culturale di sinistra, l’attacco e a volte l’insulto nei confronti degli avversari, magari definiti ancora comunisti; e, insieme a questo bagaglio di ostilità, a destra è frequente ma non ingiustificato il vittimismo (non nasce dal nulla). La destra battagliera combatte la sinistra col proposito di sconfiggerla, disarcionarla, denunciarne gli abusi. La sinistra invece non vuole sconfiggere l’avversario, ma eliminarlo. Il retropensiero fisso è che il nemico non abbia diritto di esistere e di pronunciarsi; non ha i titoli, va squalificato a priori, non va nemmeno ascoltato e confutato ma va cancellato in partenza. Non c’è l’idea di scontro tra due parti avverse, ma la pretesa che una parte sia giudicante e l’altra giudicata, in permanenza; il verdetto è scritto a priori, il nemico è orribile e suscita indignazione, non dissenso. Va soppresso, non criticato. Se dunque eliminare il nemico è il verbo finale di questo modo di pensare e di agire, i succedanei in un regime di pace, libertà e democrazia, sono censurare, impedire, cacciare, boicottare, silenziare. Cosa che a parti invertite non accade quasi mai. E, da ultimo, far finta che l’avversario non esista, condannarlo alla morte civile, non prendere mai in considerazione ciò che dice, scrive, fa, pensa.

Tutto questo si carica all’estrema potenza quando l’ambito di riferimento è il mondo culturale, inteso nel senso più largo e onnicomprensivo, di spettacolo, editoria, arte e pensiero, musica, scuola e università. Quel mondo viene ritenuto per privilegio innato e indiscusso di loro esclusiva pertinenza, salvo rifiutare sdegnati e sarcastici l’accusa di esercitare un’egemonia sulla cultura; e dunque chiunque emerga in quel mondo, chiunque venga promosso, soprattutto da un governo di destra, a un ruolo in quei campi è per definizione un intruso, un imbucato, disadatto, incapace, ignorante. Da espellere come un corpo estraneo. La differenza tra destra e sinistra nei rapporti con l’avversario è sostanzialmente questa: la destra ha mille difetti e incongruenze, è in genere meno attenta e sensibile ai temi culturali, spesso più rozza e in certi casi sguaiata. Ma combatte l’avversario, vuole batterlo, non vuole eliminarlo a priori.

A sinistra c’è sempre una forma di indignazione virale, come un brusìo che sale e acquista forza di auto persuasione crescendo di tono e di voci; nessun senso critico e autocritico, nessuna ribellione a questi passaparola; a volte basta una sigla sindacale, un’associazione, un partito e sorge la conventio ad excludendum che assume in molti casi l’aspetto di organizzazione paramafiosa. Tutto questo condanna la sinistra a restare fazione e non riuscire mai a parlare al resto del Paese. Quella pretesa di superiorità è la sua condanna all’inferiorità politico-elettorale e la propensione alla sconfitta. La destra così piena di difetti alla fine diventa preferibile rispetto al livido, acido, intollerante settarismo del campo avverso. E dopo aver gridato largo ai giovani, spazio alle donne, davanti a una giovane donna, cresciuta nel mondo della musica e non della politica, l’unica cosa che sanno dire è: cacciatela, non è degna. Una vergogna, sì, una miseria, ma la loro.

Autore
Panorama

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