Il consiglio musicale del mese: Blue Oyster Cult, Cultosaurus Erectus

  • Postato il 29 giugno 2025
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  • Di Blitz
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Eccoci arrivati al secondo appuntamento della serie in cui vi consiglio alcuni album da scoprire o riscoprire: non necessariamente dei grandi classici, ma neanche sempre album completamente sconosciuti. Anche se l’album di cui vi parlo oggi meriterebbe sicuramente di essere considerato un grande classico del rock. Il consiglio musicale di questo mese è Cultosaurus Erectus dei Blue Oyster Cult.

I Blue Oyster Cult sono una grande band rock di cui si parla troppo poco. Nati nel 1967 a Long Island, New York, esordiscono con il primo LP Blue Oyster Cult nel 1972 e oggi sono ancora in attività. Da allora hanno pubblicato sedici album in studio, l’ultimo, Ghost Stories, nel 2024. Nonostante i più grandi successi della band siano senza dubbio (Don’t Fear) The Reaper, pubblicato nel 1976 nell’album Agents of Fortune, Godzilla, incluso in Spectres del 1977, e Burning for You, uscito nel 1981 insieme all’album Fire of Unknown Origins, Cultosaurus Erectus è e rimane un album storico, una pietra miliare del rock che qualsiasi amante della buona musica dovrebbe conoscere.

Nel corso degli anni, ovviamente, diversi musicisti si sono avvicendati nella band, con i soli Eric Bloom, voce e chitarra e a volte tastiera, e Donald “Buck Dharma” Roeser, voce, chitarra solista e tastiere, come membri costanti del gruppo. In questo album troviamo però ancora la formazione originale, perlomeno dal loro esordio del 1972, con Joe Bouchard al basso e voce, il fratello Albert Bouchard alla batteria e voce e Allen Lanier alle tastiere e chitarra. Da sottolineare anche l’intervento al sassofono di Mark Rivera sulla seconda traccia Monsters.

I Blue Oyster Cult vengono spesso associati alla scena hard rock e addirittura metal, ma nel loro progetto musicale c’è molto di più, come dimostra perfettamente questo album. Cultosaurus Erectus è il settimo album della band, pubblicato nel 1980. L’album precedente, Mirrors, uscito nel 1979, rappresentava un esperimento che si avventurava in sonorità più “commerciali”. Cultosaurus Erectus è invece un ritorno alle origini, a un suono più rock, fatto di chitarre distorte e a volte pesanti, ma anche di effetti, in particolare sulla voce, e di composizioni elaborate e mai scontate.

La musica qui ha un’identità completamente indipendente dal testo. È costruita quasi come una teatralizzazione delle storie narrate dai brani, in maniera per molti versi simile alla concezione musicale del glam rock. Si potrebbe dire che la musica traduce nel linguaggio universale dei suoni ciò che il testo traduce in parole, e alla base di tutte e due c’è un senso inesprimibile che trova nell’unione dei due elementi un veicolo di trasmissione estremamente potente. E dal punto di vista compositivo i Blue Oyster Cult hanno dimostrato più e più volte di non essere secondi a nessuno.

Temi oscuri e fantascienza

I temi tipici dell’intera produzione dei Blue Oyster Cult sono spesso oscuri, legati in genere all’alchimia e alle sue suggestioni e alla fantascienza. Il nome stesso della band deriva da un ciclo di racconti di fantascienza del loro primo produttore, Sandy Pearlman. Il ciclo si intitolava The Soft Doctrines of Imaginos, e guarda caso Imaginos è proprio il titolo dell’undicesimo album della band pubblicato nel 1988, che approfondisce la storia di Pearlman. In questo mondo, i Blue Oyster Cult sono un gruppo di alieni che si aggrega segretamente per guidare la storia del pianeta Terra. In Cultusaurus Erectus, però, troviamo anche una collaborazione con Michael Moorcock, altro scrittore di fantascienza che ha un ruolo importante nella storia del rock. Moorcock aveva già collaborato a più riprese con gli Hawkwind e anche in precedenza con i Blue Oyster Cult nel loro album Mirrors dell’anno prima. E la band non era nuova a collaborazioni con autori esterni per la costruzione dei testi, tra le quali spicca frequentemente nientedimeno che il nome di Patti Smith. La traccia di apertura dell’album è Black Blade, con il testo scritto in collaborazione con Michael Moorcock. In particolare, i riferimenti qui sono a Eric of Melniboné, il personaggio più famoso nella cosmogonia di Moorcock, e alla sua spada magica Stormbringer, di cui egli è padrone ma allo stesso tempo schiavo.

La copertina dell’album

Anche le immagini che accompagnano questo capolavoro del rock meritano un piccolo approfondimento. Soprattutto la copertina. Il titolo dell’album fa infatti subito pensare a una classificazione di una specie di dinosauro, probabilmente con il sottinteso che questa specie di dinosauro siamo noi esseri umani. Di conseguenza, l’immagine di copertina viene di solito interpretata come un primo piano di qualche tyrannosaurus rex. Si tratta invece di un particolare di un’opera di Richard Clifton-Dey dal titolo Behemoth’s World. In quest’opera sono rappresentati dei serpentoni, quasi degli enormi vermi con la testa simile a un dinosauro, che si muovono in un paesaggio desolato e desertico, forse un pianeta alieno, con astronavi relativamente minuscole che gli volano intorno. Ancora una volta, l’oscurità dei testi si rispecchia nelle immagini e nelle metafore che portano con loro. Nella seconda traccia, Monsters, si afferma chiaramente che cerchiamo di allontanarci dalla nostra autodistruzione fuggendo verso lo spazio profondo, la nostra unica salvezza, dimenticandoci però di allontanarci dai mostri che sono nelle nostre menti.

Dentro le canzoni

I due brani di apertura di Cultosaurus Erectus sono senza dubbio due perle di rock. Black Blade ci mostra la grande capacità della band di costruire una struttura musicale complessa e per nulla banale intorno a un’idea tratta da un racconto di fantascienza. Il tutto con uso di effetti, come l’eco sulla voce nel ritornello, che nel 1980 rappresentavano sicuramente una sperimentazione. Monsters, d’altra parte, si presenta altrettanto sorprendente nelle scelte musicali, con un inatteso intermezzo jazzato che potrebbe ricordare alcuni passaggi dei King Crimson. Gli altri brani abbandonano un po’ i temi fantascientifici, per raccontare storie più “terrene”. Come ho già fatto nell’articolo precedente della serie, vi presenterò alcuni dei brani dell’album senza seguire la sequenza delle tracce: non è mia intenzione fare una “guida all’ascolto”, quanto invece un approfondimento, nella speranza di incuriosire qualcuno ad ascoltare l’album. Passiamo quindi ora alla quinta traccia, o se preferite la traccia di apertura del lato B del vinile.

The Marshall Plan racconta la storia di un appassionato di musica che si vede soffiare la ragazza dalla band che erano andati a vedere insieme in concerto. Decide allora di diventare lui stesso una rockstar per riprendersi la ragazza. Riuscirà a diventare famoso. Per quanto riguarda il riprendersi la ragazza invece… niente da fare! D’altra parte un po’ di pessimismo fa parte del mondo dei Blue Oyster Cult: nessun lieto fine da favola con loro! Il titolo è un gioco di parole tra il famoso Piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti hanno dettato le regole della politica economica mondiale dopo la Seconda Guerra Mondiale, e gli amplificatori Marshall, un marchio di fabbrica per la musica rock e quindi un passaggio obbligato per chi vuole diventare una rockstar.

Il brano successivo, Hungry Boys, è forse quello che ammicca di più al “commerciale”, almeno nel ritornello. Ma il ritmo decisamente rock, la velocità perfetta, il gioco di botta e risposta fra il cantato e la chitarra, insieme alla modulazione melodica sulla fine del ritornello costituiscono tutti elementi di grande sapienza musicale che alla fine rendono il brano un ottimo esempio di rock ben fatto. Il testo qui è, come spesso accade con i Blue Oyster Cult, volutamente oscuro, o se preferite lasciato alla libera interpretazione dell’ascoltatore. Diversi indizi fanno però pensare che si parli di droga…

Ora facciamo un passo indietro e torniamo al primo lato del vinile. La terza traccia dell’album, Divine Wind, ha un andamento un po’ blues, in cui la sezione ritmica dimostra la sua maestria nel movimento serrato di basso e batteria. La voce costruisce un crescendo melodico fino all’apice del refrain, a conclusione di ogni strofa, mentre la chitarra spazia su questo tessuto sonoro con frasi vagamente psichedeliche. La caratteristica rara, se non unica, di questo brano è che si tratta di un brano politico, esplicitamente indirizzato all’ayatollah Khomeyni che, dopo aver guidato la rivoluzione iraniana e aver preso il potere, aveva catturato 54 cittadini americani dall’ambasciata, tenuti in ostaggio per costringere gli Stati Uniti a consegnare lo scià dimesso dalla rivoluzione. In realtà, anche qui il testo si presta a più interpretazioni, compresa quella sarcastica rivolta alla decisione del presidente americano Carter di non cedere al ricatto e autorizzare una spedizione militare della CIA, che fallì miseramente. Sta di fatto che il ritornello fa esplicitamente riferimento alla definizione dell’America da parte di Khomeyni come il “grande Satana”.

A concludere il lato A del vinile, troviamo un altro brano che si concentra su una delle mostruosità dell’umanità. Deadline è stata scritta in memoria di un amico della band, gestore di un locale, che per coprire i debiti si era messo nei guai con la malavita organizzata. Non essendo riuscito a rispettare una scadenza (deadline), è stato ucciso. Come sempre, i Blue Oyster Cult riescono a prendere spunto da una storia specifica per dare voce a un sentimento più universale, trasformando la scadenza in questione in una sorta di metafora: “c’è sempre una scadenza, non mancare la scadenza altrimenti tutti i tuoi incubi diventeranno realtà, mi dispiacerebbe se succedesse a te”. Anche qui il tessuto musicale è lavorato con grande competenza, con una strofa che si muove su un basso ossessivo e con un’atmosfera vagamente minacciosa, e un ritornello che si apre modulando in una tonalità diversa, come se fosse un pensiero a margine, un taglio su una scena teatrale differente.

Un album sorprendente

Cultosaurus Erectus è un album sorprendente. Innanzitutto perché le soluzioni musicali all’interno dei brani, così come la successione dei brani stessi, sorprende a ogni passo. Ma anche perché, come è caratteristica dei Blue Oyster Cult e di ogni buon gruppo rock, sfugge a ogni rigida etichetta di genere. È un album di hard rock? Be’, non direi, al massimo di buon rock con una concezione compositiva legata ancora al rock degli anni Settanta… e questa non è una critica! È metal? Men che mai, direi. Non lo paragonerei mai a un album degli Iron Maiden o dei Metallica, anche se molti gruppi metal hanno spesso affermato di fare riferimento ai Blue Oyster Cult. Nonostante i vari passaggi inattesi all’interno dei brani, non si può neanche dire che si tratti di progressive. È sostanzialmente un album libero dalla definizione rigida di un genere, che utilizza ogni sfumatura a disposizione, prendendo dai diversi generi ciò che è più utile in un determinato momento. Se proprio si vogliono cercare somiglianze, io sottolineerei la teatralità della costruzione musicale: una lezione ben appresa dall’esperienza del glam rock. In definitiva, si tratta di un album schiettamente rock, di quel rock fatto bene come si faceva negli anni Settanta.

L’album si chiude con Lips in the Hills e Unknown Tongue, due altri ottimi brani di grande rock che arrivano nella tracklist come sonorità inattese e fresche. Ma prima c’è quello che nell’album più di tutti i brani assomiglia a una ballata, con la quale chiuderò questo articolo: Fallen Angel. L’arrangiamento, anche in questo caso, è decisamente rock, ma se andate a cercare le esecuzioni acustiche ad esempio di Joe Bouchard da solo con chitarra e voce, vedrete emergere la ballata che si cela dietro il movimento incalzante della versione registrata sull’album. Le soluzioni ritmiche e gli interventi di tastiera di questo brano sono tra gli elementi che hanno fatto parlare a molti di influenze prog nell’album, che però secondo me rimane un “unicum” al di fuori delle etichette più rigide e, in sostanza, un ottimo album di buon rock.

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Autore
Blitz

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