Il coraggio di decidere. La sicurezza europea tra sondaggi e politica

  • Postato il 10 maggio 2025
  • Politica
  • Di Formiche
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L’anno è il 2016, è il 23 giugno e siamo da qualche parte nel Regno Unito. Una delle tante troupe televisive si reca in uno dei tanti seggi dove si svolge il referendum sull’adesione del Regno Unito all’Unione europea (il cosiddetto referendum Brexit). Fuori piove (molto British). Ai margini dell’inquadratura un’anziana signora sotto l’ombrello sembra assorta nei suoi pensieri. Per ora, lasciamola li.

Con un salto siamo al 2025, stavolta in Italia. Il giorno, uno a scelta. Giornali, talk-show, notiziari, palchi, in tanti si confrontano con gli angoscianti temi della guerra, per la prima volta in Europa dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale; dell’incertezza e degli sconvolgimenti seguiti alla rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti; di difesa, sicurezza; della rivoluzione ventura creata dall’intelligenza artificiale, della libertà di opinione ed espressione, nel nuovo universo di social media e connesse distopie.

Nel discorso pubblico, e sempre più spesso anche in quello politico, il riferimento principale per l’analisi e la discussione è quello dei sondaggi. Da questi emerge una tendenza piuttosto omogenea che indica la propensione verso il disengagement dalla questione Ucraina; di rifiuto di ogni ipotesi di “riarmo” europeo e a maggior ragione nazionale; di offeso stupore, condito da sarcasmo e malcelato senso di superiorità, verso la nuova amministrazione statunitense. Poche, pochissime le voci dissonanti. Sembra quasi profilarsi una tendenza alla “introspezione strategica” quale forma di autodifesa rispetto a un mondo che ci appare troppo complesso e pieno di rischi; la risposta porta quasi biologicamente a concentrarsi sul proprio orizzonte vicino, declinato come ancoramento alla comfort zone della quotidianità.

Ma queste pulsioni sono sostenibili se confrontate con la dura realtà?

Prendiamo, per esempio, il dibattito sulle spese militari che, nel contesto nazionale, si concretizza nella questione dell’“aumento” delle spese militari sino al 2% del prodotto interno lordo. Si tratta veramente di un aumento, a scapito del welfare, per soddisfare generali e ammiragli? Poche voci si sono alzate a ricordare che, in realtà si tratta di un impegno formalmente assunto anche dal nostro Paese nel 2014, a conclusione di un vertice Nato, tenutosi oltretutto in un periodo oggettivamente molto meno teso rispetto a quello attuale. Vista sotto questa ottica, la questione dovrebbe forse essere posta nei termini se l’Italia voglia continuare a non onorare un proprio impegno, liberamente preso di fronte a uno dei più importanti consessi di like-minded occidentali e questo nonostante le condizioni della situazione internazionale nel continente europeo siano le peggiori degli ultimi 80 anni. Invece, si parla di pulsioni guerraiole, riarmo, cieca sottomissione ai poteri forti e via discorrendo, affidandosi a sondaggi quali unici indicatori della volontà popolare e quindi fonte di legittimazione democratica.

Analogo discorso potrebbe valere per le polemiche attorno all’articolo 31 del decreto sicurezza, nelle quali ci si è limitati a critiche dogmatiche, basate solo sul dogma di smantellare la proposta della parte avversa ma senza alcuna considerazione del perché sia nata la proposta stessa né delle oggettive motivazioni che ne sono alla base.

Quanto la realtà giustifichi questi approcci appare realisticamente molto sindacabile. Del resto, è proprio il parametro “realtà” che sembra essere il grande assente in ampia parte del dibattito pubblico, sociale e, spesso, politico. Se avesse dato retta ai sondaggi, probabilmente il 13 maggio 1940 Winston Churchill non avrebbe promesso ai suoi compatrioti “sangue, fatica, lacrime e sudore” quali ingredienti della riscossa.

A questo punto, torniamo un momento alla signora davanti al seggio. Finite le interviste tra scrutatori e pubblico alla sezione elettorale, il giornalista la nota ancora ferma sotto la pioggia battente e, incuriosito, si avvicina e le chiede cosa stesse facendo. Riassumo il senso della risposta dell’anziana signora: “Sono qui, infuriata perché debbo decidere io per una questione che tanto impatto avrà sul futuro del mio Paese. Sono infuriata con quei politici che eleggiamo per decidere responsabilmente per il bene comune, ai quali concediamo onori e privilegi e che, davanti a un tema tanto complesso e rischioso, se la cavano chiedendo alla gente come me di decidere per loro e assolverli dalle loro responsabilità. Ma allora, mi chiedo, a cosa serve la democrazia rappresentativa?”.

Un esempio illuminante di maturità civica e istituzionale: il punto centrato dalla oramai inzuppata anziana era, infatti, quello del senso profondo dei nostri sistemi democratici liberali, dove l’esercizio dell’alta funzione politica si compie nell’assunzione della responsabilità di decidere. Del resto, è per questa ragione che i decisori politici hanno a loro diretta e univoca disposizione tutta una serie di strumenti esecutivi, quali l’expertise dei ministeri, i servizi di intelligence, istituti, esperti e così via. La barriera difensiva che separa l’esercizio della decisione politica dall’arbitrio si trova nei vari sistemi di pesi e contrappesi dei quali le varie democrazie si sono dotate – e che nel nostro Paese sono esemplari – e non nei sondaggi del giorno. Purtroppo, sembra che a volte la cruda analisi della signora al seggio sia poco tenuta in conto e che il dibattito si incentri sulla ricerca di consenso immediato, sulla critica preconcetta dell’avversario politico e sulla marginalizzazione della realtà.

Un altro esempio credo si possa trovare in molte reazioni a scelte e operato della nuova amministrazione statunitense. Il focus di queste reazioni è spesso quello della critica totale, senza soffermarsi a una valutazione meno superficiale, e alla riproposizione di risposte che dovrebbero riguardare soltanto la controparte, senza coinvolgerci e ovviamente senza “pagare pegno”. In termini forse crudi ma sintetici e oggettivi, stiamo vivendo una fase di riassetto totale dei rapporti geostrategici – sotto i profili politico, militare, economico, scientifico, ambientale, demografico e culturale – con la ricerca di nuovi equilibri in un processo dove l’hard power ha ripreso un ruolo per decenni dimenticato. Non è certo una bella notizia, ma è un fatto, è la realtà nella quale viviamo.

Le risposte a queste sfide complesse che frequentemente vengono proposte spaziano dall’affidarsi all’Unione europea quale potenza determinante e coesa; alla centralità del soft power (peraltro non meglio declinato) quale chiave di successo nell’agone internazionale; all’ancoramento alla sola dimensione nazionale, allentando i rapporti continentali; alla “scoperta” di nuovi alleati e mercati; all’allontanamento dagli assi euroatlantici, a favore di nuovi partner. Queste soluzioni sembrano accomunate dalla mancanza di oggettività e di ancoramento alla realtà, che essa ci piaccia (ahimè, no) o meno.

Restando nell’ambito Europa e relative istituzioni, possiamo seriamente affidarci a chi propone lo zaino da boyscout quale soluzione finale al problema resilienza? O prendiamo la questione del “ReArm Europe Plan/Readiness 2030”: già la scelta del nome lascia intuire un approccio di tipo finanziario, senza particolari riflessioni di matrice strategica. E a esso si collega anche la questione “Buy European”, ovvero la definizione di una quota minima di acquisiti, finanziati dal programma, da effettuarsi esclusivamente in ambito comunitario. Apparentemente si tratta di un valido strumento per disancorare la supply chain della difesa dei Paesi comunitari dalla dipendenza da fornitori statunitensi o comunque extra Unione europea. Ma se la quota venisse fissata all’80-90%, come vorrebbero ambienti francesi e in parte anche tedeschi, ne verrebbero penalizzati programmi come il Global Combat Air Program (caccia di sesta generazione) sviluppato da Italia, Regno Unito e Giappone, a favore del competitor franco-tedesco Future Combat Air System (che al momento sembra in netto ritardo rispetto al nostro programma).

La morale appare abbastanza chiara: andare da soli è inimmaginabile, ma anche fidarsi degli apparenti “alleati naturali” non è possibile. In questo contesto dove tutti sono alla ricerca di nuovi spazi.

L’elemento che emerge da questo caso, come da tanti altri che si potrebbero richiamare, è che per attrezzarsi adeguatamente per le sfide del nostro tempo è necessaria una maturazione culturale profonda, che ci faccia passare dal concetto novecentesco di Difesa a quello, moderno, di Sicurezza. Senza questo salto di consapevolezza, di essere immersi in un confronto orizzontale di gray zone operations, le possibilità di difendersi, prima ancora che di competere, sono prossime allo zero.

Il concetto di sicurezza comprende al proprio interno quello di difesa, estendendo l’approccio di tutela a tutti i campi della vita sociale, economica, culturale, demografica, naturalistica del Paese; alla base di questo concetto c’è la chiara definizione dell’interesse nazionale, comunque lo si applichi. Si tratta di un processo complesso, che richiede profondità di analisi accompagnata dal coraggio delle scelte e dalla capacità di comunicarle. Quello che non trova spazio in un processo efficiente è il tatticismo esasperato, il rifiuto aprioristico di quanto proposto dal “nemico politico” di turno, la ricerca del consenso immediato, il timore e il rifiuto di assunzione delle responsabilità insite nel ruolo di ciascuno, il wokeism applicato a ogni dimensione della vita sociale e politica.

L’ambito dove questo processo si può sviluppare al meglio sarebbe quello di un Consiglio nazionale di sicurezza, dove analisi e soluzioni possano maturare con una dinamica libera ed efficace, a sostegno del dibattito istituzionale e del decisore politici di ultima istanza ma svincolate dai vincoli di affiliazione partitica.

Forse è questo il messaggio che la signora sotto la pioggia ha voluto affidare.

Autore
Formiche

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