“Il decreto Meloni sulle liste d’attesa? In Lombardia e Veneto la regola è ignorarlo”
- Postato il 24 maggio 2025
- Salute
- Di Il Fatto Quotidiano
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La legge introdotta l’anno scorso per ridurre le liste d’attesa nella sanità non ha prodotto risultati. Il governo promette di intervenire sulle inadempienze con poteri commissariali, ma l’intesa con le Regioni sul necessario decreto attuativo è arrivata solo nei gironi scorsi, dopo un confronto tanto acceso che potrebbe ancora riservare sorprese. L’annuncio lo ha dato il governatore del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, nel suo ruolo di presidente della Conferenza delle Regioni, dopo l’incontro con Giorgia Meloni di giovedì 22 maggio a Roma. “Ma servono parametri chiari per l’uscita dai poteri sostitutivi del governo, perché – ha spiegato Fedriga – le Regioni non vogliono trovarsi, come nel caso di disavanzo, dei commissariamenti che durano decenni e oltretutto non hanno per nulla risolto la situazione”. Concetto che già il governatore del Veneto, Luca Zaia, aveva espresso a suo modo: “Non siamo dei pirla”. Non lo sono nemmeno gli italiani, eppure capita sempre più spesso che rinuncino a curarsi, mentre chi se lo può permettere alimenta la crescente richiesta di prestazioni a pagamento. Anche nelle Regioni del Nord governate da un centrodestra che a Roma sventola accordi ma a livello locale, in Lombardia come in Veneto, più che alle liste d’attesa sembra fare la guerra a cittadini e medici di base. Perché, avverte chi ha fatto e vinto migliaia di ricorsi sui tempi massimi di attesa, “a mancare è la volontà di far rispettare la legge ai direttori generali delle aziende sanitarie”. Compresa la legge 107/2024 del governo Meloni “che qui non applica nessuno, anzi”.
Ben oltre i battibecchi tra governo e Regioni, la verità è quella che emerge dalle storie di chi si è sentito dire che “la prima disponibilità è l’anno prossimo”, quando va bene, e si è rivolto a uno dei tanti Sportelli per la Salute nati in Lombardia e non solo, vera e propria reazione della società civile al disservizio pubblico. Come il Fatto ha raccontato, l’iniziativa nasce dall’intuizione di Andrea Viani, pensionato di Codogno (Lodi), che ha trovato il modo di costringere il sistema sanitario a erogare le prestazioni nei tempi stabiliti dal medico di base. Tempi che sono componente fondamentale dei Livelli essenziali di assistenza (LEA), basati unicamente sulla valutazione clinica del tempo entro cui la patologia non rischia di peggiorare, e costituzionalmente garantiti (artt. 32 e 117). Secondo la normativa vigente, se la struttura non rispetta i tempi, il cittadino può chiedere l’attivazione del “percorso di tutela” per ottenere la prestazione entro i termini, anche in intramoenia o in privato e senza costi aggiuntivi. Con la legge 107 del governo Meloni, inoltre, non serve più nemmeno la richiesta dell’utente: il direttore generale dovrebbe attivarsi automaticamente per individuare la soluzione, e la struttura, che erogherà la prestazione. Il condizionale è d’obbligo perché, spiega Massimo Macrì del Coordinamento Brianza per il diritto alla salute, “non è mai successo: la legge viene ignorata e infatti non ha cambiato in alcun modo l’atteggiamento dei direttori generali rispetto all’erogazione in intramoenia o nel privato accreditato in caso di indisponibilità del Servizio sanitario nazionale”.
“Stiamo assistendo un ragazzo di 30 anni con una neoplasia e la necessità di una risonanza magnetica che il medico ha imposto di erogare entro 10 giorni”, racconta Macrì. “Al nostro sollecito, l’Azienda socio sanitaria territoriale (Asst) non ha nemmeno risposto: prima violazione della legge. Mentre l’Azienda sanitaria territoriale ci ha detto solo che non hanno strutture in grado e che ci avrebbero mandato l’elenco dei privati accreditati: seconda violazione perché non sta all’utente trovare la soluzione”. Il Difensore regionale della Lombardia, garante che interviene spesso su richiesta degli Sportelli di fronte al silenzio delle Asst, ha segnalato che nel 2024 “il numero delle segnalazioni in materia di sanità è più che triplicato, a causa di un notevole incremento delle doglianze relative ai tempi di attesa per la prenotazione delle prestazioni”. Quando nemmeno il Difensore regionale sblocca la situazione, tocca formalizzare la segnalazione all’assessorato regionale e ai carabinieri dei Nas (Nuclei Antisofisticazione e Sanità), già al lavoro su tante segnalazioni degli Sportelli che solo in Lombardia hanno già presentato tre ricorsi collettivi. “Perché, nonostante i successi, reiterare quelli individuali non basta: il problema è strutturale”, ricorda Macrì.
Ci sono richieste respinte sostenendo che andavano fatta recandosi di persona al Cup. “Ormai lo dicono anche a ottantenni allettati, ma una disposizione nazionale dice il contrario”, spiega lo stesso Viani. “Abbiamo fatto ricorso ma non hanno sentito ragioni: non ci interessa, non eroghiamo niente”. Come non bastasse, sulle liste d’attesa il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, ha firmato un protocollo di collaborazione proprio coi Nas. Per incastrare i direttori generali inadempienti? Strano, visto che sono di nomina politica, che in Lombardia vuol dire centrodestra. Piuttosto si vuole capire se i cittadini siano troppo malati o i medici richiedano troppe prestazioni. “Il nostro sforzo è disumano, ma le prescrizioni sono troppe”, ha detto Fontana. Un effetto della “medicina difensiva” messa in atto dai camici bianchi per evitare cause legali? Lo Sportello per la Salute brianzolo fa notare che “a differenza delle aziende pubbliche e nonostante gli obblighi di legge, il privato accreditato scansa la presa in carico e il follow-up dei pazienti”. Così, per rispettare i tempi stabiliti per seconde visite, nuovi esami e controlli, l’utenza finisce per rivolgersi altrove, rinunciando alla presa in carico e alla continuità delle cure. Medicina difensiva o no, capita che nuove strutture e nuovi medici richiedano approfondimenti o esami differenti, incidendo sulla lista delle richieste. “Non a caso la presa in carico riguarda la maggior parte degli accessi alle prestazioni sanitarie”, ricorda Macrì. Che accusa la Regione di sapere benissimo come si comportano i privati, e di lavarsene le mani. “Sussidiarietà”, la chiamava l’ex governatore Roberto Formigoni, quella collaborazione tra pubblico e privato che nella sanità avrebbe garantito la riduzione delle liste d’attesa e migliorato la scelta di cura per i cittadini.
E in Veneto? “Tutto uguale”, risponde Giorgio Brasola del Coordinamento veronese per il diritto alla salute. Con una novità: “Stanno facendo le pulci alle impegnative dei medici, ce ne accorgiamo dalle risposte agli ultimi ricorsi in cui si sostiene che l’impegnativa non è corretta”. La Regione tenta lo scaricabarile? “Dalle segnalazioni che riceviamo sembra sia stato attivato una sorte di filtro, ma la diagnosi è un diritto e sta al medico farla”. Quanto alla legge del governo Meloni, “ha avuto pessima fortuna anche in Veneto e non viene assolutamente applicata. Al contrario, si ricorre a sotterfugi che spingono le persone a pagare o a non curarsi”. E rilancia: “Poche storie, applicassero l’articolo 32 della Costituzione”. Le strutture venete hanno registrato un crollo delle prestazioni erogate nei tempi stabiliti e il 7,5 per cento dei residenti in regione rinuncia, dicono i dati del ministero della Salute. Le cronache locali raccontano di anziani con cinque visite da prenotare che non riescono a fissarne una. E di pazienti oncologici con prestazioni urgenti che vengono calendarizzate a sei mesi. Secondo il presidente Zaia, il grosso del problema sta nell’organico: in Veneto mancano 3.500 medici e, come in altre regioni, c’è chi va all’estero, infermieri compresi. Sarà che l’Italia investe in sanità meno della media Ocse, il 6,2% del Pil, cosa che ci classifica come Paese “sanitariamente povero”? Forse è questo che intendeva Zaia quando alla premier Meloni mandava a dire che “non sarà la nomina di un commissario a risolvere i problemi”. Chissà. Si potrebbe intanto iniziare a rispettare le leggi che ci sono, Costituzione in testa, dalle Asst ai privati.
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