Il dibattito sullo Stretto di Messina. Un Ponte vivo più nei discorsi che nei cantieri
- Postato il 21 agosto 2025
- Attualità
- Di Artribune
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Ci sono luoghi che non ammettono semplificazioni. Lo Stretto di Messina è uno di questi. Non basta guardarlo come un tratto di mare da superare, un vuoto geografico da colmare con un arco di cemento e acciaio. Lo Stretto è una foresta di simboli, miti, leggende e memoria e respinge ogni riduzionismo. Non sorprende allora che, da oltre un secolo, l’idea di un ponte che lo attraversi abbia assunto un peso che va ben oltre i calcoli ingegneristici e le valutazioni economiche. Il Ponte sullo Stretto è diventato una figura retorica, un mito politico, una promessa ciclica. E ha sempre generato grandi polemiche e prese di posizione.
Lo Stretto di Messina come paesaggio identitario
La forza di questa immagine non nasce soltanto dalla modernità che evoca, ma dal confronto con altri simboli globali. Quasi sempre, per giustificare l’opera, vengono evocati il Golden Gate di San Francisco, il Brooklyn Bridge di New York,l’Akashi Kaikyō in Giappone o il ponte di Øresund tra Danimarca e Svezia. È come se costruire un ponte fosse, di per sé, un gesto universale di progresso, ovunque esso sorga. Ma questi paragoni tradiscono una fragilità: l’omologazione universale e l’incapacità di riconoscere la peculiarità culturale dello Stretto.
Lo Stretto è un paesaggio identitario, che da millenni plasma lo sguardo e l’immaginario. Le sue acque sono abitate da forze simboliche: Scilla e Cariddi, già in Omero, divennero metafora della difficoltà di scegliere tra due pericoli opposti. Virgilio, nell’Eneide, ne fissò la potenza tragica; Dante li evoca nel Purgatorio come emblema di pericolo estremo. Nei secoli, lo Stretto è tornato a essere orizzonte poetico: Tommaso Campanella lo scelse come confine tra visione e realtà, Quasimodo lo cantò come ferita e nostalgia, D’Arrigo lo trasformò in epopea marina in Horcynus Orca, Consolo lo descrisse come soglia di erranza e identità.
Lo Stretto di Messina e le arti figurative
Ma lo Stretto non vive solo nella parola. Le arti figurative ne hanno custodito e moltiplicato il senso. Nella Galleria Regionale di Messina sono conservate tele seicentesche che ritraggono lo scontro tra Scilla e Cariddi come allegorie morali, quasi a dire che questo paesaggio non è mai stato un semplice dato naturale, ma un destino. Ma basterebbe sfogliare il meraviglioso volume Vedute dello Stretto di Messina di Vincenzo Consolo, per intuire la potenza di veduta e di visione che lo Stretto ha generato.
Un tale deposito culturale non può essere trattato come semplice barriera da superare. Lo Stretto non è un “gap” infrastrutturale. Non è un ostacolo neutro da superare, un buco da riempire. Ogni paragone con il Golden Gate o con il ponte giapponese rischia di ridurre lo Stretto a un “vuoto” da riempire, mentre esso è un “pieno” di storia, natura e poesia. Nessun altro ponte al mondo nasce dentro un orizzonte simbolico così denso. Vero, semmai è il contrario. Ad esempio, davanti al nulla nel quale è sorto un ponte come quello di Brooklyn sono stati i poeti a riconoscere in quell’opera una grande metafora della modernità, come nel caso di The Bridge (1930) di Hart Crane. Il grande Walt Whitman invece in Crossing Brooklyn Ferry (1856) aveva cantato il traghetto: i volti dei passeggeri, le correnti, il riflesso della luce. Ma prima il nulla. E il Golden Gate Bridge? È diventato simbolo di Jack Kerouac e della Beat Generation, è stato reso celebre dal cinema: Hitchcock, Godzilla, X-Men. Ma prima lì che cosa c’era? Il nulla, o meglio strutture difensive quali il Fort Point. Nient’altro: nessun mito, nessun simbolo, nessuna leggenda.

I ponti nella storia dei luoghi
Un parallelo un po’ più congruo, semmai, è quello dei ponti sul Bosforo. Il primo del 1973 intaccò la memoria di Costantinopoli, la città che per secoli aveva vissuto della propria posizione sospesa tra Oriente e Occidente. Quell’arco sanciva il sogno di Atatürk alterando il genius loci. Il Bosforo era il cuore stesso dell’identità di Istanbul: guardare quelle acque significava percepire la soglia tra mondi. Attraversarle era un rito, non un’abitudine quotidiana. I ponti hanno accelerato la crescita urbana, inghiottendo villaggi, costruendo periferie, trasformando la geografia in un’unica distesa metropolitana intasata dal traffico. L’UNESCO ha più volte sollevato preoccupazioni per la riduzione del valore immateriale che lega la città alla sua storia millenaria. Leggere il grande Omar Pamuk ci aiuta a comprendere oggi il “lutto” d’anima che la trasformazione ha provocato: “Hanno ucciso l’Istanbul che amavo”.
Messina come Istanbul?
In ogni caso, però, Messina non è Istanbul, dove la metropoli tentacolare inglobava il passaggio. E certo non ha la necessità di unire una metropoli che già da secoli vive di una dualità tra Europa e Asia. Lo Stretto di Messina è un luogo in cui la soglia è più forte della città e la forza del mito più potente della funzione. Prevalgono le differenze, dunque.
Eppure, da decenni, il Ponte sullo Stretto di Messina vive dell’ambiguità di miti di progresso e paragoni incongrui. È un progetto mai realizzato ma sempre evocato, pur non stimolando la fantasia di alcun poeta, foss’anche un novello futurista. Una promessa di sviluppo rilanciata senza affrontare fino in fondo la domanda decisiva: cosa significherebbe davvero trasformare lo Stretto in una strada? Quale perdita culturale comporterebbe “normalizzare” un luogo che, per la sua natura, è eccezione, frattura, vertigine? Il mito del Ponte funziona perché risponde a un’aspirazione diffusa: colmare un ritardo, “portare il Sud in Europa”, fare “come gli altri”. È la retorica provincialista del progresso come imitazione. Eppure, l’idea stessa di progresso non è neutra. Quando diventa mito, rischia di cancellare i contesti, di imporre un modello unico uguale dappertutto. Ma lo Stretto tutt’ora resiste a questa logica, di fatto anche nell’opinione pubblica.
Il dibattito sul Ponte sullo Stretto di Messina
Discutere del Ponte, dunque, significa interrogarsi non solo su una grande opera, ma sul rapporto tra modernità e identità, tra tecnica e cultura, tra mito e realtà. Non è una pagina bianca su cui tracciare un viadotto, ma un palinsesto stratificato, fatto di correnti, memorie, leggende. È un luogo in cui la geografia coincide con l’anima, e ogni scelta infrastrutturale diventa, inevitabilmente, una scelta di visione sul futuro. Perché questo è il punto: non il “progresso”, ma il “futuro”.
Forse per questo il Ponte continua a restare sospeso, più vivo nei discorsi che nei cantieri. Perché il suo destino non si gioca solo sul terreno della fattibilità tecnica, ma su quello ben più difficile del senso. Ogni volta che se ne parla, l’Italia sembra interrogarsi non tanto su un collegamento fisico, quanto sul significato che attribuisce al proprio futuro.
Antonio Spadaro
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