Il diritto di dire no. Reportage nei villaggi dell’India tra chi blocca i matrimoni precoci delle bambine e aiuta i minori a uscire dal silenzio
- Postato il 19 giugno 2025
- Mondo
- Di Il Fatto Quotidiano
- 4 Visualizzazioni
.png)
È da poco passata l’alba quando tre donne caricano opuscoli, striscioni e disegni nel bagagliaio del fuoristrada. Il cielo è bianco, carico di umidità. Pioverà, forse domani. Davanti a loro hanno almeno 4 ore di viaggio, su strade costeggiate di alberi di teak e di palma, capanne, contadini e chioschi dove fermarsi a bere il chai. Devono raggiungere un villaggio di 900 abitanti nascosto tra le foreste che si chiama Jamujhari. Lì incontreranno una ventina di bambine e bambini e spiegheranno loro perché possono dire no a un futuro che non vogliono, anche se questo significa andare contro i genitori e le tradizioni tramandate di famiglia in famiglia. Lo faranno pensando anche alla storia di Urvashi, una ragazzina proveniente da un villaggio poco distante. Dopo un primo tentativo di matrimonio bloccato, i genitori sono riusciti comunque a farla sposare. E Urvashi, costretta a casa del marito invece che sui banchi di scuola, si è tolta la vita.
Siamo nello stato dell’Orissa, in un angolo remoto dell’India nord orientale, lontano migliaia di chilometri dalle rotte turistiche più battute. Più precisamente nel distretto interno di Kandhamal, una zona rurale tra le più svantaggiate del Paese: una persona su tre vive al di sotto della soglia di povertà. Molti degli abitanti sono adivasi, ossia origine tribale. Una grossa fetta di loro lavora nei campi o nei cantieri per 500 rupie al giorno (circa 5 euro). È l’altro volto di un Paese, il più popoloso al mondo (nel 2023 ha superato la Cina), che cambia e cresce a ritmi prodigiosi, che ambisce a sedersi al tavolo delle grandi potenze, ma dove una parte significativa della popolazione è ancora tagliata fuori dai benefici dell’ascesa economica e resta confinata ai margini a causa di profonde disuguaglianze economiche, sociali e di genere. Secondo Oxfam, l’1% della popolazione ha in mano oltre il 40% della ricchezza totale. Una forbice così ampia ha un impatto anche sulla vita di bambine e bambini. Soprattutto in alcune aree, l’infanzia è spesso cancellata.
La via che collega l’Italia e l’India – Le tre donne si chiamano Rajalaxmi Mahakur, Suprava Nayak, e Sasmita Karan, hanno tra i 30 e i 50 anni e sono originarie di Kandhamal. Insieme formano un gruppo che si chiama Aps, sigla che sta per Awarness program staff . E quando partono all’alba dirette ai villaggi lasciano a casa la famiglia, per tornare quando è già buio. Il loro lavoro fa parte di un progetto che il Ciai, il Centro italiano aiuti all’infanzia, sta portando avanti da novembre 2023 insieme a diverse realtà locali, per garantire i diritti dei e delle minori di questa parte di mondo. Finanziato dalla Commissione per le adozioni internazionali del governo italiano, al progetto è stato dato il nome Rakshan, parola indiana che significa “proteggere”, ed è dedicato a bambine e bambini che si trovano in situazioni di vulnerabilità. Prevede una serie di attività per migliorare la vita e l’ambiente educativo nelle strutture che ospitano minori soli, con una particolare attenzione all’inclusione di quelli disabili. Come la realizzazione di laboratori tattili per i ragazzi non vedenti o gli interventi per ristrutturare i bagni e dotarli di inceneritori per lo smaltimento dei rifiuti. A questo viene affiancato un lavoro di sensibilizzazione sul campo, con risultati forse meno immediati, ma che mira a ottenere passo dopo passo un cambiamento dall’interno delle comunità. Ed è questa una delle sfide più interessanti del progetto.
“A Kandhamal sono attive poche organizzazioni straniere” spiegano Valentina Pitton ed Emma Rossi del Ciai, rispettivamente project manager e coordinatrice di Rakshan. Da tempo ormai dividono mente e cuore tra India e Italia. “Nel distretto ci sono 2515 villaggi. Per fare un lavoro più efficace, abbiamo dovuto fare una selezione restringendo il nostro intervento a quelli con la più alta percentuale di abusi sui minori. In tutto sono coinvolti circa 800 bambine e bambini e 800 adulti”. Sono aree particolari, dove non si si parla Hindi ma Oriya, insieme a una serie di dialetti locali. “Qui le tradizioni tribali sono forti e radicate. Proprio per questo il lavoro viene fatto con personale e partner del posto, essenziali per costruire un rapporto con la popolazione”.


Gli abusi sui minori – Le tre operatrici dell’Aps girano di villaggio in villaggio per arrivare dove la legge non arriva. Per aiutare le bambine e i bambini a uscire dal silenzio prima che sia troppo tardi, spezzando così le catene degli abusi. Il più comune è il matrimonio precoce, oltre il 50%, ma sono frequenti anche il traffico di minori e il lavoro infantile. Un percorso che si scontra con l’omertà, la reticenza degli adulti e le difficili condizioni economiche delle famiglie. E che le operatrici portano avanti con pazienza, rispetto e profonda conoscenza delle tradizioni e delle norme sociali. Alle spalle hanno una lunga esperienza di lavoro alla Child Line, una linea telefonica destinata a bambini vittime di violenze, a volte minori soli con una vita passata in gran parte in strada. “Non è facile” dicono. Ci sono i momenti in cui si scoraggiano, certo. Ma quando chiedi se sono stanche ricevi sempre un no come risposta.

“Se siete in pericolo, urlate più forte” – Arrivate al villaggio di Jamujhari hanno di fronte un gruppo di 20 alunni, dai 10 ai 16 anni. Appartengono alla tribù Kondh e alcuni di loro hanno camminato a lungo su strade sterrate e polverose per essere qui e partecipare. I temi sono diversi: il matrimonio infantile prima di tutto, il traffico di minori, ma anche la violenza sessuale. Rajalaxmi Mahakur fa vedere loro un cartone animato che mostra, in maniera molto esplicita, cosa succede quando un amico di famiglia si trasforma in predatore. Ci sono disegni sui “good” e “bad touch”, con i cerchi rossi sulle parti del corpo che non devono essere toccate dagli adulti: la bocca, il seno, i genitali. In classe non vola una mosca. “Se siete in pericolo cosa dovete fare?”. “Dobbiamo urlare ‘salvami””. “Così non vi sentono, dovete urlare più forte”. “Salvami! Salvami!”. “Se hai un problema e devi dirlo a qualcuno, da chi vai?”. Molti rispondono le insegnanti e le assistenti sociali. Dimostrano al contrario di sentirsi meno a loro agio con i genitori e con la polizia. Le tre donne elencano quali sono le tecniche più usate da chi adesca ragazzini per farli entrare in giri di schiavitù o prostituzione: finte offerte di lavoro o di soldi. Chiedono chi di loro viene picchiato a casa e quasi tutti alzano la mano. Cercano poi di convincerli che la legge è dalla loro parte, che hanno il diritto a essere ascoltati e a continuare a frequentare la scuola. Insomma a essere quello che la loro età richiede. “Cosa vuoi fare da grande?” chiede Suprava Nayak a una bambina. “La dottoressa”. “Se ti sposi prima di 18 anni non lo diventerai mai, non potrai più studiare”.

La scelta di Monalisha – Non è facile convincere i bambini e i ragazzi a raccontare cosa succede a casa e chiedere aiuto. C’è la paura di essere emarginati, di rimanere soli. Non è però impossibile. A marzo, proprio durante una di queste attività, la 15enne Monalisha ha preso coraggio e ha aperto uno spiraglio per cambiare rotta. Terza di cinque figli, padre contadino e madre bracciante, era stata promessa in matrimonio. Lo ha confidato prima a una sua compagna e poi alle donne del progetto, che a quel punto, insieme alle operatrici sociali del distretto, si sono attivate per mettersi in contatto con i genitori e fermare le nozze. Fondamentale è stata l’azione della stessa Monalisha, che una volta a casa ha spiegato alla famiglia che la legge vieta il matrimonio precoce. Se obbligata, ha detto, li avrebbe denunciati alle autorità. “Oggi nella scelta delle famiglie di far sposare le proprie figlie ancora bambine pesano molto le difficili condizioni economiche e l’altissimo livello di disoccupazione” spiega l’assistente del progetto Rakshan, il 29enne indiano Dolagobinda Maharana. Lavora per l’ong Banabasi Seva Samiti, fondata nel 1972 da uno dei collaboratori di Gandhi. È originario della zona e conosce bene le realtà dei villaggi. Sa che la volontà di un bambino si scontra con quella dei genitori che a loro volta sono stati vittime di abusi, che spesso non sanno cosa prevede la legge e che fronteggiano ogni giorno tutte le difficoltà legate alla povertà. “Le figlie femmine sono viste come un costo non sostenibile” aggiunge.
Il lavoro che non c’è e i cambiamenti climatici – Nei 40 centri coinvolti, quasi la metà della popolazione appartiene alle scheduled tribes, ossia ai gruppi tribali censiti. Un’altra parte rientra invece nelle caste censite, le scheduled castes, e in quelle che il governo indiano definisce other backwarded castes. In tutti e tre i casi parliamo di gruppi sociali svantaggiati, per i quali sono previste politiche di discriminazione positiva con lo scopo di ridurre le disparità. Nella zona circa 7 persone su 10 non hanno accesso servizi igienici con acqua. La maggioranza usa la legna per cucinare, e solo il 30% possiede un televisore o uno smartphone. Situazioni aggravate dal cambiamento climatico. Le piogge sempre meno frequenti spingono molti di loro a migrare nello stato indiano del Kerala per trovare lavoro, abbandonando parte della famiglia nel villaggio.

Con il padre lontano migliaia di chilometri e la madre nei campi, per un bambino si chiude la possibilità di studiare, costretto a stare a casa a curare i fratelli più piccoli. A volte la presenza a scuola si riduce a 5 o 6 volte al mese, e non è raro che si lasci del tutto dopo l’ottava classe (la terza media per noi). Molti sviluppano dipendenze da tabacco e alcool già nella pre-adolescenza. Guardano al futuro con ben poche prospettive. Per un giovane che vive a Kandhamal trovare un impiego è quasi impossibile: solo 26 su oltre 13500 ci sono riusciti negli ultimi tre anni. E questo è dovuto anche all’offerta educativa di scarsa qualità. Secondo l’International Labour Organization l’Orissa è uno degli stati dell’India con i peggiori livelli di occupazione.


Le bambine invisibili – Tra gli abusi sui minori il matrimonio infantile resta quello più diffuso, nonostante gli sforzi del governo ne abbiano ridotto il numero rispetto al passato. “Una bambina che diventa moglie – racconta ancora Dolagobinda Maharana – deve abbandonare la scuola, lasciare casa sua e prendersi cura della famiglia del marito. Rimane incinta poco dopo, anche se il suo fisico non è ancora pronto per una gravidanza. Diventa una bambina che si prende cura di un altro bambino. Perde il diritto all’istruzione, alla salute, all’indipendenza, il diritto di decidere cosa vuole diventare. Svaniscono gli obiettivi, spariscono i sogni”. Le unioni con i minori sono vietate in India. La legge fissa a 18 anni l’età minima per sposarsi per le ragazze e a 21 per i ragazzi.


Ma secondo l’Unicef, l’India è ancora il Paese in cui vive il numero più elevato di adolescenti costrette alle nozze prima della maggiore età: oltre 200 milioni. Più di Bangladesh, Cina, Indonesia e Nigeria. Nello stato dell’Orissa, quello dove sta lavorando Ciai, il governo ha raccolto 8mila e 159 segnalazioni, almeno tre al giorno, negli ultimi sei anni. Anche se queste cifre non raccontano tutto, perché, come conferma lo staff di Banabasi Seva Samiti, tanti casi rimangono invisibili. Anche i villaggi dichiarati child marriage free talvolta non lo sono realmente, e l’apparente riduzione del fenomeno è dovuta al calo delle segnalazioni. Le vittime sono quasi sempre ragazzine, in un contesto generale di discriminazione di genere tra i più gravi al mondo. La società indiana è ancora tenacemente patriarcale e oppressiva. Tagliate fuori da dinamiche di potere, processi decisionali e mercato del lavoro (solo una su tre è occupata), le donne vivono una lotta quotidiana.
Cosa succede domani – “Crescere una bambina è come innaffiare il giardino del vicino” è un comune modo di dire in India. Eppure in queste foreste, tra i preziosi alberi di Mahua, le case di argilla e la terra così rossa che quando si alza colora anche il cielo, le cose stanno cambiando. Nel villaggio di Lingerimaha, Dipu ha seguito con attenzione tutto il lavoro di sensibilizzazione. Ha 17 anni ed è figlio di un pastore cristiano. Racconta che vuole diventare volontario contro gli abusi sui minori. Un ruolo prezioso, perché può essere una sorta di sentinella e allo stesso tempo un punto di riferimento per chi ha bisogno di confidarsi e di denunciare. Il tassello di una rete di supporto che, insieme ad altri adolescenti del villaggio, può amplificare il messaggio di Rakshan, dare coraggio alle ragazze e ai ragazzi e soprattutto aiutarli nella fase che arriva dopo la denuncia, quella più difficile. Quando le operatrici delle ong si trovano a chilometri di distanza. “Ho visto tre mie amiche di 15, 16 e 17 anni sposarsi e sparire. Vorrei che non accadesse più” racconta ancora Dipu.


Metterci la faccia – Dietro il 17enne Dipu un gruppo di donne di ogni età sta afferrando dei cartelli. Hanno da poco finito l’incontro che le operatrici dell’Aps fanno con gli adulti, per aumentare in loro la consapevolezza degli obblighi dei genitori verso i figli e dei diritti dei minori. E ora si stanno preparando a sfilare per le vie del proprio villaggio in un corteo, il rally.
A questo link è possibile approfondire tutte le attività del progetto Rakshan.
*i nomi delle bambine sono stati modificati per la loro sicurezza
L'articolo Il diritto di dire no. Reportage nei villaggi dell’India tra chi blocca i matrimoni precoci delle bambine e aiuta i minori a uscire dal silenzio proviene da Il Fatto Quotidiano.