“Il giorno del delitto di Via Poma, nell’ufficio di Simonetta Cesaroni c’era una collega. L’avevo scritto nel libro mai uscito”: lo rivela Gian Paolo Pelizzaro
- Postato il 8 agosto 2025
- Crime
- Di Il Fatto Quotidiano
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Un dattiloscritto consegnato agli inquirenti da un giovane giornalista di inchiesta che non l’ha mai più ritrovato fino a quando, dopo circa un quarto di secolo, recupera un altro cronista tra le scartoffie di un avvocato in pensione. Sarebbe perfetta come trama di un noir ma è la storia, quella vera, de “L’intrigo”, il libro che Gian Paolo Pelizzaro scrisse nel 1996 mentre si arrovellava sul delitto dell’estate delle “notti magiche”: il delitto di via Poma.
Quel libro fu messo agli atti con tanto di segreto istruttorio da Settembrino Nebbioso. Uno dei tanti procuratori che si sono succeduti nelle indagini sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, la ragazza di Cinecittà assassinata con 29 coltellate negli uffici dell’Aiag dove andava di pomeriggio (due volte a settimana, il martedì e il giovedì) a lavorare come contabile per arrotondare, su richiesta dei suoi datori di lavoro titolari di una piccola ditta nel suo stesso quartiere, la Reli Sas.
La storia è tristemente conosciuta: Simonetta quel giorno esce di casa dopo aver pranzato coi suoi, la sorella la accompagna in metro fino alla fermata di Subaugusta, attraversa Roma in metro fino a Lepanto da cui raggiunge il palazzotto elegante di via Carlo Poma. Verrà ritrovata a tarda sera da sua sorella Paola e dal fidanzato Antonello che sono andati fin lì non vedendola rincasare. Dal momento in cui la trovano distesa sul pavimento degli uffici degli Ostelli della Gioventù non ci sarà molta chiarezza e nessuna verità, solo un muro di omertà e tre innocenti indagati e poi prosciolti e dopo 35 anni ancora ci si chiede: chi ha ucciso Simonetta Cesaroni?
Il dattiloscritto perduto
Se lo chiedeva anche Pelizzaro in quegli anni e da quella domanda arrivò, se non a risolvere il caso a molte oscure verità. Le mise nero su bianco con il suo computer MacIntosh dell’epoca e resosi conto di quanto fossero pesanti scelse di andare in procura e consegnarle ai magistrati. Quel libro non l’ha mai più riavuto perché acquisito agli atti. “Ma durante l’emergenza Covid – racconta – molti mi contattavano chiedendomi del libro mai pubblicato. Nello stesso periodo Giacomo Galanti, che all’epoca scriveva per l’Huffpost, trovò una mia intervista del ‘95 su questo libro che era in via di pubblicazione. Gli raccontai tutto L’inchiesta di Nebbioso era quella che andò avanti dal 1994, dopo il proscioglimento del secondo indagato di via Poma, Federico Valle, al 2001. Poi, il magistrato fu avvicendato nel procedimento su via Poma e promosso a capo di gabinetto del Ministero della Giustizia. Il libro fu messo agli atti dell’istruttoria e mai più ritrovato. “Era finito – Pelizzaro ci dice – tra i faldoni dell’avvocato Molinaro, il legale dei Cesaroni che quando si chiuse l’inchiesta di Nebbioso, prese in consegna tutto il fascicolo”. Galanti andò a casa sua andato a casa sua quando era ormai in pensione e rovistando tra i suoi documenti trovò sia il libro che il verbale di acquisizione. Mi contattò, io vivevo in Francia all’epoca. Ci sentimmo e gli spiegai come nacque quella mia inchiesta”. E oggi lo spiega anche a noi:
“Tutto parte da una serie di confidenze che mi fece tra il 1995 e il 1996 Luigina Berrettini che già all’epoca mi parlò dei fogli firma”. La Berrettini, lo ricordiamo, era responsabile del personale dell’Aiag e quel giorno fu l’ultima, secondo la storia ufficiale, a parlare al telefono con la vittima. Simonetta le telefonò intorno alle 17,20 del pomeriggio perché non ricordava un codice da inserire nel computer per poter procedere con il suo lavoro. Perché cercò lei al telefono che si occupava delle buste paga resta un mistero. Tuttavia, la Berrettini era l’unica a sapere chi fosse in ufficio quel giorno perché per poter conteggiare le ore di lavoro dei suoi colleghi raccoglieva le presenze dai cosiddetti fogli firma, antenati del cartellino e del moderno badge da strisciare. I dipendenti all’epoca firmavano le entrate e le uscite dal lavoro.
C’è una relazione della Squadra Mobile del 19 giugno del 1997 che attesta che all’epoca erano scomparsi nel nulla i fogli firma della segreteria del comitato dell’Aiag “dal 10 luglio al 13 novembre del 1990 relativi alle presenze”, si legge dal verbale stesso. Quindi il rischio era di non sapere mai chi ci fosse quel 7 agosto del 1990 negli uffici di via Poma, ma Pelizzaro oggi ci conferma (come già altre fonti ci hanno detto in passato) che quei fogli, prima che scomparissero, la Luigina “li fotocopiò in segreto su autorizzazione della direttrice di Aiag Anita Baldi e li diede al papà di Simonetta Claudio Cesaroni nel corso del 1991.
Il racconto di quei giorni di Pelizzaro a FqMagazine prosegue: “La Berrettini mi aveva aperto credito di confidenze mai fatte a nessuno. Forse perché andai da lei senza tesi precostituite su via Poma. Ci vedevamo al Foro Italico, dopo che Aiag aveva venduto gli uffici in via Carlo Poma, poco dopo il delitto di Simonetta. Ciò che mi disse un pomeriggio a voce bassa temendo che i suoi colleghi la sentissero mi lasciò senza fiato: Quel martedì 7 agosto c’era una collega in quell’ufficio. Io lo so perché compilo le buste paga e lei il 7 agosto firmò il foglio di presenza.
La Berettini voleva essere di aiuto alle indagini, ma era anche spaventata, mi disse: Ti prego fai qualcosa, vai dal magistrato ma tutelatemi. Ci sono persone ancora vive che potrebbero rivalersi contro di me. Io andai in Procura perché sapevo del procedimento contro ignoti e dissi tutto a Settembrino che poi tempo dopo venne chiamato a fare il capo di Gabinetto in via Arenula”.
Dopo di lui arrivò Roberto Cavallone che, insieme al sostituto procuratore Ilaria Calò portò al procedimento penale contro l’allora fidanzato di Simonetta, Raniero Busco che, lo ricordiamo, dopo le condanne iniziali fu completamente assolto da ogni accusa. L’impianto accusatorio contro di lui crollò in Appello e poi in Cassazione: il dna sul corpetto (incompatibile con le tracce repertate) e i morsi sul seno della ragazza che poi risultarono non essere morsi e comunque incompatibili con la sua arcata dentaria.
“Ma intanto il mio dattiloscritto acquisito agli atti – prosegue Pelizzaro – e non ne uscì, nemmeno durante il processo Busco. Gli atti transitarono nel procedimento di Cavallone ed erano ancora coperti da segreto istruttorio. L’avvocato Molinaro, avendone diritto, fece copia di tutto”.
La svolta arriva nell’ottobre del 2024 quando Pelizzaro diventa consulente di una Commissione di inchiesta che indaga su un altro impenetrabile mistero, la scomparsa di Emanuela Orlandi. Un giorno, ha una conversazione a Palazzo San Macuto con un altro consulente che ha dedicato anni di ricerche al caso di via Poma. “Questo collega, Igor Patruno, parlando dei fogli firma mi dice: lo sai? Li abbiamo ritrovati. Mi dice che la Berrettini ne fece copia e li diede a Claudio Cesaroni. Perché non me lo disse? Aveva fatto una promessa di riservatezza al papà di Simonetta. A quel punto, siamo a dicembre 2024, con Giacomo decidiamo di pubblicare un libro che raccontasse la storia di quel dattiloscritto ritrovato, alla luce delle nuove indagini”. Perché, lo ricordiamo, se la richiesta di archiviazione su via Poma è stata respinta dal Gip Giulia Arcieri è grazie anche al ritrovamento di quei fogli firma. “L’ordinanza della GIP Arcieri è in larga parte basata su quello che scrissi all’epoca”, ci dice l’autore. Quel libro oggi esce per Baldini e Castoldi a firma di Pelizzaro e Galanti e si intitola: “L’intrigo di Via Poma” e racchiude anche un prezioso appendice: il Dizionario dei misteri dalla A alla Z su Via Poma, con tutte le voci sul caso di via Poma.
Nel dattiloscritto così come nel libro si parte dai fogli firma ma c’è molto di più, aggiunge Pelizzaro: “Tutta la parte legata al presidente degli Ostelli Francesco Caracciolo Di Sarno, le interferenze di persone legate ai servizi segreti fino ad arrivare alla scoperta di appartamenti dei Servizi in via Gradoli dove c’era un covo delle Brigate Rosse. Scartabellando tra le carte, trovai anche i collegamenti tra uno dei primi arrivati sulla scena del crimine, Sergio Costa in forza all’epoca alle Volanti della Polizia, e uomini dei Servizi. Così come che il direttore generale degli Ostelli Vito di Cesare era genero del direttore del Sisde Riccardo Malpica. All’epoca andai al Copasir e consegnai tutto al vice presidente, un senatore della Lega Nord, Erminio Boso soprannominato l’Obelix della Padania. Boso fece tre interrogazioni e scoppiò un putiferio”.
Dopo tanti anni e tante ricerche sul caso, chiediamo a Pelizzaro se oggi un’idea su chi possa aver brutalmente assassinato Simonetta ce l’abbia. “Sicuramente qualcuno che faceva parte di quell’ufficio. Sulla scena del crimine immagino due persone: un uomo e una donna. Uno dei due è intervenuto per coprire chi molestava Simonetta all’epoca e che non è detto fosse con certezza di sesso maschile. La Berettini mi disse che in via Poma c’era già stato un precedente di una giovane donna licenziatasi nel 1988. Tuttavia sono sfiduciato. La maggior parte dei protagonisti sono deceduti e chi è rimasto ha imparato bene a difendersi e a nascondere la verità”.
Pelizzaro non ripone molta fiducia nella prova scientifica perché “Le tracce di sangue repertate sulla scena sono fuorvianti: sia quelle sulla porta dell’ufficio che quelle sul telefono. Non abbiamo la certezza fossero dell’assassino, parliamo di poche macchie. Sulla scena del crimine è stato fatto un guazzabuglio e quelli che ne sono usciti dopo averla ripulita sapevano dove andare, da qui l’idea fossero pratici del posto e quindi legati agli Ostelli. Di certo non sono usciti sulla strada principale ma qualcosa li ha traditi (inscenarono il furto portando via oltre che i vestiti anche i gioielli di Simonetta, ndr). Queste persone ebbero l’istinto di chiudere a chiave gli uffici, questo li ha traditi. Tuttavia quell’ufficio è rimasto intoccabile, mai all’epoca nessuno di loro è stato sfiorato dalle indagini. Tutti negarono di conoscere Simonetta e i fogli firma di quel giorno che persino la Polizia Scientifica catturò nelle foto perché erano ancora attaccati alla porta, non vennero mai sequestrati e si ebbe il tempo di farli sparire. Il computer a cui lavorava Simonetta fu inavvertitamente spento dopo la scoperta del cadavere. Acceso avrebbe restituito dei dati non memorizzati.
“Inavvertitamente spento”, scrissero nel cuore della notte durante il sopralluogo. Quella macchina poteva darci delle informazioni importanti. Sono scettico e questo nostro libro ha un taglio più storico che giudiziario. Che non si potesse arrivare alla verità lo aveva capito anche Claudio Cesaroni, stroncato dal dolore”, conclude amaramente.
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