Il grande Harold Pinter, nonostante il Nobel

  • Postato il 21 giugno 2025
  • Di Il Foglio
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Il grande Harold Pinter, nonostante il Nobel

Esattamente vent’anni fa comminavano il Nobel per la Letteratura a Harold Pinter. Il quale, al di là di questo spiacevole contrattempo, è davvero uno degli autori su cui conviene meditare molto, ovviamente dopo averlo riletto e rivisto in scena, ammesso che non arrivi un regista deciso a polverizzarne il genio in favore del proprio, spesso presunto – il riallestimento più recente è “Ritorno a casa”, molto ben diretto da Massimo Popolizio, in scena al teatro Argentina di Roma.

Londinese di un distretto nord-orientale, famiglia ebraica di origini ucraine e polacche, Pinter cominciò sbagliando ruolo – si pensò attore, poi capì che non era roba per lui –, debuttò da drammaturgo con un fiasco clamoroso – lo splendido “The birthday party” (Il compleanno), in Italia l’abbiamo visto nella versione di Peter Stein – e finì col massimo riconoscimento possibile. Carriera non male, contrappuntata dalle difficoltà che incontra sempre chi segna una discontinuità col passato e fa cadere dal cielo della grazia letteraria un’opera con la quale i posteri dovranno fare i conti, condannando i contemporanei a spaccarcisi la testa – “non si capisce niente” è il compendio, in verità non troppo sbrigativo, di quel che dicevano i detrattori, cioè tutti.

L’opera di Pinter, che solitamente viene ascritta all’influenza beckettiana, è interessante per mille ragioni. La più evidente è la quantità di botole in cui lo spettatore (o il lettore) precipita continuamente. Tutto quel che accade, sta per accadere, e quando accade, se accade, accade “sotto”: sotto il testo, sotto le parole, sotto le apparenti relazioni tra familiari. Oppure “sopra”, in una terra sconosciuta tra il passato e il presente, tra l’individuale e il collettivo.

Si pensi al testo più enigmatico, ricco e inquietante – impossibile scollarselo di dosso – che Pinter abbia mai scritto, “Ceneri alle ceneri”. In scena, Devlin e Rebecca, un uomo e una donna di quarant’anni. Casa di campagna, stanza a piano terra. Estate, quasi sera. Le luci delle lampade incrementano quanto più l’esterno si rabbuia, e così la commedia, da una normale (normale?) conversazione (conversazione?) tra marito e moglie deraglia, mentre fuori si fa scuro, verso abissi che fanno perdere forza gravitazionale all’azione, e all’azione delle parole, e allo spettatore seduto in platea. Rebecca si porta dentro qualcosa di più di sé stessa, forse un passato che è collettivo, di soprusi e deportazioni, di dolore inemendabile, indicibile, abominevole. La situazione perde connotati corporei e sembra fluttuare in una dimensione astratta e dolorosissima, in cui tutto potrebbe essere ciò che sembra ma anche il contrario. E parola dopo parola, tutti – compresi coloro che stanno guardando – tornano a un’origine. Di cosa, esattamente, non è dato sapere. Forse del dolore – un dolore che ci precede, che ci ha generato, uno strazio della Storia e dell’umano. Un testo che sfida continuamente sé stesso, confronto scioccante con le possibilità, esplorazione estrema del teatro, della parola e della rappresentazione. E’ una cerimonia misteriosa, forse un’entrata nella morte come origine della vita. Devlin ha paura di Rebecca. E di cosa c’è nel suo passato. E la sua mancata comprensione (brividi compresi) è anche la nostra.
Harold Pinter, come tutti i grandi scrittori, ci rivela la realtà: nessuno aspetta più Godot. Nessuno ha la disperazione di inventarselo. Quanto all’innocenza, niente da fare – troppo tardi.
 

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Autore
Il Foglio

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