“Il gruppo Fb Mia Moglie? Noi uomini dobbiamo riconoscere che c’è qualcosa che non va nel maschile oggi. Chiediamoci perché molti sono così”

  • Postato il 23 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La chiusura del gruppo Facebook “Mia Moglie” non riguarda soltanto le donne. A dirlo sono gli uomini stessi. Dopo la denuncia pubblica della scrittrice Carolina Capria e di “No justice no peace”, che ha portato allo smantellamento della community su Facebook, alcune voci maschili hanno iniziato a prendere parola. Non per difendersi, ma per rivendicare la necessità di “riflettere su un problema che riguarda tutti gli uomini”.

Giacomo Zani – presidente di Mica Macho, collettivo composto da uomini e che si pone come obiettivo quello di ripensare il maschile – si rivolge proprio a chi in queste ore non ha ancora preso parola: “Abbiamo fatto una lunga conversazione interna. La prima sensazione che mi resta è di tristezza: pensare che ci siano uomini che hanno bisogno di fare questa roba per sentirsi meglio, per sentirsi accettati. E credo che qualsiasi uomo dovrebbe provare la stessa cosa. È da lì che bisogna partire: riconoscere che c’è qualcosa che non va dentro il maschile di oggi”. Secondo Zani, quei gruppi non sono solo archivi di immagini rubate: “Sono luoghi di socializzazione maschile tossica: non è solo condivisione di materiale, è creazione di un senso di appartenenza basato sul dominio sulle donne”.

Zani respinge l’alibi, più volte ribadita e rivendicata, secondo cui sarebbe sbagliato parlarne perché “non tutti gli uomini” sono coinvolti: “Non serve a niente dirlo. Il punto è che molti comportamenti si ripetono e diventano sistemici. Gli uomini non sono abituati a pensarsi come collettività, come genere, come fratellanza. La prima reazione di fronte a questi episodi è dire: io non sono così. Invece la domanda giusta sarebbe: perché molti lo sono?”. Per il presidente di Mica Macho, parlare di “goliardia” è un errore: “Quando parliamo di gruppi del genere, non parliamo di scherzi. Parliamo di comunità che producono violenza culturale, che normalizzano l’idea che il corpo femminile sia disponibile a prescindere”.

Dietro a “Mia Moglie”, spiega Zani, non c’è solo violazione del consenso e di una cultura dello stupro dilagante: c’è un meccanismo di riconoscimento maschile. “Chi pubblica le foto lo fa prima di tutto per ricevere approvazione da altri uomini. Alcune immagini erano persino fake, generate con l’intelligenza artificiale. È lo stesso schema che c’è dietro il revenge porn: mostrare la donna come trofeo, simbolo del proprio successo sessuale. È un modello che abbiamo introiettato fin da adolescenti: il valore dell’uomo cresce se la sua compagna è ‘bella’, nota, desiderata. Questo ci accompagna tutti, anche quelli che pensano di esserne immuni”. E i numeri raccontano molto: “Il dato allarmante non è soltanto il numero degli iscritti, ma il loro profilo: uomini adulti, inseriti in contesti istituzionali e professionali. Questo ci dice che non è un fenomeno trasversale”.

Da qui la domanda: quale modello di maschilità vogliamo? “Il punto di partenza dovrebbe essere: ci piace un maschile così? A me no. Io non voglio che un mio amico, un conoscente o magari un futuro figlio maschio si ritrovi a condividere foto di una compagna per sentirsi accettato. E non basta limitarsi a insegnare il consenso. Perché se il tuo valore dipende dall’approvazione maschile attraverso il sesso, non ne usciamo. Serve una rivoluzione dall’interno, uomini che parlano ad altri uomini”. Il digitale, aggiunge, non inventa la misoginia ma la amplifica: “Quello che vediamo online è il riflesso di rapporti di potere già esistenti offline”.

Secondo Zani, il fronte maschile critico resta ancora troppo debole rispetto all’onda montante della manosfera e della destra. “Il mondo progressista ha ignorato il disagio maschile, altri lo hanno raccolto: i Redpill, Andrew Tate, l’idea reazionaria del maschio che deve tornare a dominare. Non sono quattro ragazzi su internet, è un movimento globale che oggi ha anche rappresentanza politica. Lo vediamo nel voto: per la prima volta esiste un gap enorme tra giovani uomini, che vanno a destra, e giovani donne, che vanno a sinistra. È il segno che la destra una risposta l’ha data, la sinistra no”.

Per questo, conclude, serve uno sguardo politico: “Bisogna smettere di pensare a questi casi come a singole ‘mele marce’ e riconoscerli come parte di un sistema di violenza di genere. Non basta dire che gli uomini devono essere ‘alleati’: l’alleato è passivo. Ci vuole un protagonismo maschile, attivo, scomodo, capace di parlare a chi non leggerebbe mai un libro femminista. Altrimenti continueremo a lasciare spazio agli altri, a chi cavalca rabbia e frustrazione. E intanto i gruppi come ‘Mia Moglie’ continueranno a nascere, proliferare, fare danni”.

A fargli eco è l’attivista femminista Irene Facheris, che lancia un appello diretto: “Cosa succede se gli uomini parlano di questo gruppo nei loro spazi? Uno: altri uomini scoprono che sta succedendo. Due: magari vanno a controllare se tra i membri ci sono amici loro. Tre: se scoprono che ci sono, possono prenderli di petto, chiedere spiegazioni, responsabilizzarli. E cosa succede se invece non diffondono la notizia? Che non arriva agli uomini, perché la maggior parte non segue i profili delle donne che ne parlano. È qui che la macchina si inceppa. Quando gli uomini tacciono. Tutti gli uomini possono fare la differenza. Quindi sei un uomo? Fai girare questa notizia. Usa quel potere che hai”.

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