Il libro di Latouche contro la commercializzazione di spazio urbano (e la crisi dell’arte contemporanea) 

  • Postato il 2 settembre 2025
  • Libri
  • Di Artribune
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Serge Latouche, con Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea (Elèuthera, 2025), in poco più di cento pagine lega in un solo denso saggio la deriva delle metropoli e l’impasse dell’arte contemporanea. La diagnosi è netta: entrambe affondano nella stessa matrice, l’omnimercificazione, che trasforma il mondo in un supermercato infinito. 
L’immagine-chiave è Hyperpolis, “città-supermercato gigante” ispirata a Les Géants di Le Clézio, dove spariscono confini, storia, senso del limite. In questo spazio iperbolico l’essere umano fluttua fra merci e loghi finché, per reazione, sogna di appiccare il fuoco: metafora della rabbia che attraversa le periferie e di un desiderio di discontinuità che la politica fatica a esprimere. Da Hyperpolis Latouche passa alla “colonizzazione dell’immaginario”, un marchio invisibile che impone gli stessi valori – competizione, profitto, spettacolo – all’urbanistica e all’arte. Il risultato è duplice: un paesaggio di non-luoghi ed una creatività addomesticata alle logiche del mercato. 

Serge Latouche, Il disastro urbano e la crisi dell'arte contemporanea
Serge Latouche, Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea

Il disastro urbano: il libro di Serge Latouche 

Il primo capitolo fotografa il disastro urbano: cemento, autostrade, villette che divorano suolo e legami sociali. Gli esempi più eclatanti – dal vuoto di Dubai alle eco-città cinesi mai decollate – servono da monito. Ma non c’è nostalgia: l’autore indica piste di fuga (rilocalizzazione, densità “umana”, mobilità dolce) che convergono in una città “decrescente”, meno vorace e più conviviale. La decrescita, per Latouche, più che teoria economica, diventa arte di vivere. Non si tratta di piantare gerani sui balconi per espiare il senso di colpa, bensì di rigenerare desideri: rallentare lo sguardo, riscoprire la prossimità, accettare il limite come condizione di libertà. È una provocazione rivolta alla critica, a chi progetta città, a chi programma la prossima mostra blockbuster. 

L’arte contemporanea secondo Serge Latouche 

Nel secondo capitolo il focus scivola sull’arte. Qui Latouche convoca Castoriadis, Baudrillard ed Ellul per ribadire che un’opera davvero viva sfugge sia alla propaganda sia all’hype finanziario.  Se tutto diventa merce, anche la creatività finisce in saldo. Archistar, fiere d’arte e musei-icona danzano nello stesso circo, ingozzati di sponsor, premi e record d’asta. In questa giostra, dice Latouche, l’opera smarrisce quell’aura di rischio che dovrebbe farci “inciampare nel reale”; resta un segnaposto scintillante in un portafoglio d’investimenti.  Strumentalizzare l’arte – avverte – equivale a distruggerla. Eppure, fra le crepe del sistema filtrano pratiche resistenti: street art, collettivi, festival, segnali di una vitalità che il libro preferisce accennare più che catalogare. L’autore nella parte finale del testo approfondisce le riflessioni sul paesaggio per mostrare che una rivoluzione estetica non si progetta a tavolino, ma nasce da un mutamento degli stessi desideri collettivi. È qui che la decrescita diventa non soltanto programma politico, bensì arte di vivere: il bello come pratica quotidiana, non come prodotto di lusso. 

Architetti e curatori: quale futuro? 

Questo saggio offre alla critica d’arte un lessico politico quasi rimosso – limite, convivialità, metabolismo urbano – e ricorda che parlare di estetica senza parlare di forma di vita è un lusso che non possiamo più permetterci. E costringe architetti, curatori e amministratori a misurarsi con la domanda di fondo: a chi serve ciò che costruiamo e celebriamo? Latouche non vende ricette: propone un cambio di sguardo. Bastano poche pagine per ritrovarsi a osservare la propria città o una mostra con occhi nuovi, immuni dai rendering patinati e dai record d’asta. Se un saggio riesce a spostare lo sguardo, è già un piccolo evento di cambiamento. Ed è quello che accade leggendo Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea. 

Serge Latouche
Serge Latouche

Intervista a Serge Latouche 

Serge Latouche (Vannes, 1940), professor emeritus di economia all’Università di Paris Sud-Orsay, si dichiara da tempo un “obiettore di crescita”. Ed è proprio sul concetto di decrescita che basa la sua riflessione sui modi per uscire dal devastante sviluppismo imposto dall’Occidente a se stesso e al resto del mondo. In Italia sono stati pubblicati molti dei suoi scritti, tra cui  La scommessa della decrescita  (Feltrinelli 2007),  L’invenzione dell’economia  (Bollati Boringhieri 2010),  Uscire dall’economia (Mimesis 2014) con Anselm Jappe,  Come reincantare il mondo: la decrescita e il sacro  (Bollati Boringhieri 2020). Con elèuthera ha pubblicato  Il tempo della decrescita, introduzione alla frugalità felice  (n.e. 2017) scritto insieme a Didier Harpagès e  La fine del sogno occidentale (n.e. 2021). Lo abbiamo intervistato per entrare ancora di più nel suo ultimo saggio. 
 
Nel libro lei parla della “colonizzazione dell’immaginario” e di come questa influisca sia sul paesaggio urbano sia sull’arte contemporanea. Potrebbe spiegare come questo processo incida sul nostro modo di vivere la città e di rapportarci all’arte? 
L’immaginario dei nostri tempi è colonizzato, soprattutto, da valori propri dell’economia: l’individualismo proprietario, la ricerca sfrenata del profitto, la competizione esasperata, il culto della tecnoscienza, ecc. Questo si riflette insidiosamente nei modi di vivere e di abitare. 
Secondo il principio della “filiera inversa”, teorizzato da Galbraith, il produttivismo e il consumismo plasmano il cittadino trasformandolo in un produttore e consumatore passivo. Questa egemonia dell’economia lascia poco spazio allo sviluppo estetico delle masse. È da qui che deriva l’indifferenza verso la città e la bellezza, nei confronti del contesto di vita e delle emozioni del sublime. Inoltre, il mercato dell’arte riesce, fino a un certo punto, a influenzare le percezioni estetiche e a imporre un certo conformismo, privo di spirito critico. 

Lei sostiene che l’arte non può essere né arruolata per un progetto politico né asservita agli imperativi del mercato. Come si può allora immaginare un’arte “resistente” o “autonoma” nel contesto odierno? 
Il potere politico o religioso ha sempre cercato di mettere l’arte al proprio servizio.  
Dall’epoca moderna in poi, il potere economico ha sostituito, in parte, gli altri due. Tuttavia, fino all’emergere dei totalitarismi, gli artisti hanno goduto di una relativa autonomia, che ha permesso la fioritura della loro libera creatività. Questo cambia con i totalitarismi nazista e sovietico, che provocano una vera e propria / conseguente sterilizzazione della creazione artistica. In una certa misura, con l’“omnimercificazione” – la mercificazione totale del mondo – stiamo assistendo a qualcosa di simile anche nell’arte contemporanea, il che genera quella crisi più volte denunciata. Tuttavia, la colonizzazione dell’immaginario non è mai totale. Resta sempre, più o meno repressa, una pulsione al rifiuto e alla rivolta. Così, la creatività e la ricerca estetica sembrano manifestare una forte resilienza, resistendo al “rullo compressore” – alla pressione omologante – del mercato dell’arte. Questo si manifesta, ad esempio, nelle periferie artistiche, come nel caso della street art. 

Il volume si sofferma anche sul tema della “decrescita” e del suo legame con l’urbanistica e la cultura. In che modo la decrescita può diventare una proposta concreta per affrontare la crisi urbanistica e dell’arte? 
La decrescita non è un’alternativa in sé, ma una matrice di alternative. Liberandosi dall’imperialismo dell’economia, che schiaccia le culture e omologa il mondo – anche nel campo dell’estetica –, l’umanità può ritrovare la diversità tra le culture, necessaria per costruire società sostenibili, ciascuna inventando liberamente i propri modi di vivere, e quindi il proprio urbanismo e la propria estetica. Il declino del mercato globale (e quindi anche del mercato dell’arte newyorkese) apre la strada a una fioritura differenziata delle creazioni estetiche. La decrescita non propone una soluzione preconfezionata, ma un’apertura verso la diversità. Nel libro, però, accenno brevemente ad alcune caratteristiche che potrebbe avere una città della decrescita – con ecoquartieri, ecovillaggi, più spazi verdi, percorsi pedonali, ecc. – offrendo alcuni accenni di questa possibilità, ma è impossibile anticipare davvero ciò che potrà emergere da una nuova civiltà fondata su una grande diversità culturale. 
 
Nel suo libro, evidenzia la tensione tra la mercificazione dell’arte e la sua capacità, quando autentica, di metterci in contatto con l’alterità e con l’inesauribile. Com’è possibile oggi ripristinare questo rapporto con l’arte come “finestra sull’abisso”, al di là delle logiche di consumo e spettacolarizzazione? 
Lo spirito del tempo – ovvero l’economicizzazione del mondo – certamente non favorisce l’emergere di artisti autentici (quelli che, per dirla come Castoriadis, aprono “finestre sull’abisso”). Soprattutto, ci impedisce di vederli, anche quando esistono. 
Per quanto mi riguarda, sono convinto che ci siano sempre stati e che ci siano ancora, anche se non sono riconosciuti come tali nel presente. Probabilmente, occorre cercarli meno nelle arti convenzionali come la pittura e la scultura, e più in forme meno classiche, come il cinema. Il sortilegio delle sale buie è, forse, quello di liberare, in un certo senso, le capacità emotive represse. 

Dario Moalli 

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Artribune

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