Il Mezzogiorno e il rischio di una crescita drogata

  • Postato il 20 giugno 2025
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Il Mezzogiorno e il rischio di una crescita drogata

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I LEGHISTI dovranno farsene una ragione: più che per l’autonomia, il triennio 2022-2024 passerà alla storia come quello della “crescita differenziata”, con il Mezzogiorno che ha viaggiato più velocemente rispetto al Nord. Un’inversione rispetto al tradizionale e stereotipato paradigma italiano. I dati diffusi ieri da Svimez, l’associazione che dal dopoguerra rappresenta la voce più autorevole del meridionalismo, rischiano però di alimentare facili illusioni. E, soprattutto, restituiscono un’idea parziale di quello che realmente è avvenuto o sta avvenendo sul fronte del Mezzogiorno.

È vero, infatti, che anche l’anno scorso il Pil del Sud è cresciuto dell’1% rispetto allo striminzito 0,6% registrato nel Nord. Ed è anche vero che, senza il contributo del Mezzogiorno, la performance complessiva dell’Italia sul fronte dell’economia sarebbe stata sicuramente peggiore. Non ci sono dubbi neanche sul fatto che, da almeno tre anni, nel Meridione le cose vadano meglio rispetto al resto del Paese: fra il 2022 e il 2024 la crescita cumulata è stata dell’8,6% rispetto al 5,6% del Nord. Con un’ulteriore valutazione: dopo una lunga fase nella quale le due aree del Paese si erano irrimediabilmente allontanate, il gap ha cominciato a essere colmato, anche se la distanza resta ancora molto ampia.

Detto questo, però, ci sono alcuni numeri che non tornano. Il primo è che la crescita del Sud è stata trainata da due “motori” che non sono affatto eterni o, come dicono gli economisti, “strutturali”. Il primo, quello del superbonus per l’edilizia, si è di fatto già spento quest’anno. Il secondo, quello del Pnrr, si spegnerà nel 2026. Tradotto in soldoni, significa che nei prossimi anni resterà a disposizione per la crescita del Mezzogiorno solo una piccola parte dei 45 miliardi di investimenti pubblici che hanno alimentato la sua crescita. Senza questa iniezione di risorse, il gap fra Nord e Sud sarebbe cresciuto più o meno con la stessa intensità dell’ultimo decennio.

C’è poi un altro fattore da prendere in considerazione: il tasso di occupazione delle regioni del Sud resta ancora inferiore di una ventina di punti rispetto al Nord. Il che significa che c’è ancora una larga percentuale di meridionali, soprattutto giovani e donne, che non lavorano e, quindi, non contribuiscono alla crescita. Infine, un’ultima considerazione. Pochi, fino ad ora, si sono posti il problema di trovare un “sostituto” efficace ai miliardi del Pnrr e a quelli, giusti o sbagliati che siano, del superbonus.

Che cosa succederà dopo il 2026? Per ora si naviga a vista, senza una vera e propria politica industriale e, soprattutto, senza una visione economica che proietti lo sguardo su un orizzonte di medio periodo. Eppure, se c’è una cosa che i dati Svimez hanno messo in netta evidenza, è che nessuna parte dell’Italia può salvarsi da sola. E che, soprattutto, senza il contributo dell’economia del Mezzogiorno, è a rischio non solo la tenuta dei nostri conti pubblici, ma anche il livello di benessere e welfare dell’intero Paese. Un contributo che, però, non può essere sostenuto solo dalla “droga” dei superbonus o del Pnrr.

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