Il peso della Storia a Gaza e la responsabilità del mondo della cultura e dell’arte

  • Postato il 9 settembre 2025
  • Attualità
  • Di Artribune
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Come ha ricordato qualche giorno fa Gianluigi Simonetti, secondo Luigi Pintor si può scrivere di qualunque argomento in un articolo di cinquemila battute: in effetti è proprio così.

La situazione nella Striscia di Gaza

E dunque, dopo la fine delle vacanze, ci si reimmerge nella realtà, ove mai si fosse fatto in modo di rimuoverla e/o dimenticarla ad agosto: una realtà che è fatta oggi di conflitti, di massacri. Addirittura, c’è bisogno di rispolverare concetti e pratiche che sembravano, fino a non moltissimo tempo fa, relegati nella pattumiera della Storia: il ‘genocidio’, tanto per fare un esempio. A differenza di qualche mese fa, adesso anche i sassi fanno fatica a negare ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza, da ben due anni e nell’indifferenza generale dei governi occidentali – e in particolare dell’Unione Europea.

Il rapporto di Francesca Albanese

Ma, proprio durante le vacanze agostane, è stato pubblicato in Italia (da “Il Fatto Quotidiano” attraverso la casa editrice PaperFIRST) e distribuito in tutte le edicole un utilissimo libretto: Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, il rapporto di Francesca Albanese, la Relatrice Speciale ONU per i diritti umani sui territori occupati da Israele (A/HRC/59/23). Sì, proprio il rapporto a dir poco ‘esplosivo’ (eppure, nulla di ciò che è scritto era sconosciuto o inedito: né i meccanismi messi in atto, né i meccanismi, né le collusioni) che è costato alla relatrice una violenta campagna diffamatorie e le sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti: quindi, quantomeno nessuno può più dire “ah ma io non sapevo, io non potevo immaginare”, e così via.
Perché nel libretto, denso e scritto anche molto bene, si legge per esempio: “Nel presente rapporto, la Relatrice Speciale (…) indaga gli ingranaggi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di espulsione e sostituzione dei palestinesi nel territorio occupato. Mentre i leader politici e i governi si sottraggono ai propri obblighi, fin troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e ora genocidio. La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg: porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigentiIl diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ciascuno dei quali richiede esame e accertamento dei gradi di coinvolgimento…” (pp. 9-10). E: “Dopo l’ottobre 2023, i sistemi di controllo, sfruttamento e spoliazione di lunga data si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenza di massa e distruzione senza precedenti. Le entità che in precedenza hanno permesso e tratto profitto dall’eliminazione e dalla cancellazione dei palestinesi attraverso l’economia dell’occupazione, invece di disimpegnarsi, sono ora coinvolte nell’economia del genocidio” (pp. 32-33).
Il punto centrale di tutto il discorso consiste nella relazione tra i vari livelli, la connessione tra economia, politica, industria, tecnologia, comunicazione, legislazione, ricerca, cultura. È questo l’aspetto più interessante, che andrà sviluppato in ulteriori indagini.

La distruzione di Gaza
La distruzione di Gaza

Cosa può fare il mondo dell’arte per Gaza

Come al solito, che c’entra tutto questo con l’arte contemporanea? Come al solito, c’entra. Perché questo quadro generale, già imponente e inquietante di per sé, va ulteriormente ampliato e approfondito nelle sue connessioni. Così come a partecipare al progetto illegale e criminale sono aziende internazionali e globali, anche l’arte e la cultura degli ultimi decenni hanno contribuito attivamente a una cultura generale che ha generato lo stato attuale di cose: prevaricazione, oppressione violazione delle leggi internazionali, violenza istituzionalizzata e sistemica. La progressiva deresponsabilizzazione dell’arte – la dismissione di quella ‘responsabilità’ di cui parla Francesca Albanese – si è tradotta, nell’arco degli ultimi quarant’anni, in un approccio piuttosto ‘decorativo’ alle principali questioni economiche, geopolitiche e sociali della nostra epoca. 

La responsabilità dell’arte

L’arte contemporanea, nel divenire un genere a sé stante, governato da proprio logiche ed espressione di un sistema sempre più elitario (che non a caso, come nelle migliori giravolte del nostro tempo, ha spesso amato presentarsi come ‘inclusivo’), ha barattato il proprio potere trasformativo con una logica mercantile che nella migliore delle ipotesi propugna l’indifferenza e la distanza rispetto ai temi considerati ‘scomodi’. Anche il mercato infatti, come la guerra, insieme al profitto segue la legge del più forte.
Di qui il silenzio di questi giorni e di questi mesi, silenzio di molti artisti e di intellettuali – un silenzio che non nasce però nel nulla e dal nulla, ma che ha precise radici e motivazioni storiche. Incubato nel contesto del postmodernismo, del suo relativismo e della sua sfiducia nei confronti della verità, ha coltivato – lungo gli Anni Novanta, Zero e Dieci, con forme e apparenze di volta in volta differenti – il cinismo e la lontananza dalla politica come cifra di distinzione e di sofisticazione. Quando poi, a partire dal Covid-19 (che sempre più, a cinque anni di distanza, si presenta come un discrimine, una cesura epocale), e poi con sussulti sempre più traumatici con l’inizio della guerra in Ucraina, gli attacchi del 7 ottobre 2023 e tutto ciò che tragicamente è seguito e sta seguendo poi, la realtà ha presentato il conto – la famosa Storia che doveva essere finita con gli Anni Ottanta, e che invece è ripartita seguendo solchi atroci che sembravano svaniti – tutto ciò che l’arte per ora sembra aver fatto è stato sbatterci contro i denti e rinchiudersi nella formula olimpica, perfetta per le anime belle, della denuncia-senza-conseguenze (vale a dire: denuncio, faccio il post sui social media o lo statement in pubblico, ma senza compiere azioni conseguenti) e del volemose bene
Il tutto, in una drammatica assenza di strumenti analitici, interpretativi e di reazione. Anche perché analisi, interpretazione e reazione possono emergere solo da una posizione opposta e contraria, non certo da una di totale adesione ai valori fondamentali.

Christian Caliandro

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Artribune

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