Il piano dei 20 punti per Gaza: pace promessa o ultimatum mascherato?
- Postato il 30 settembre 2025
- Editoriale
- Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella
Sezione I – I venti punti: promessa di tregua o architettura del controllo
Venti punti. Una lista che a prima vista sembra ordinata, dettagliata, quasi tecnica. Donald Trump e Benjamin Netanyahu l’hanno presentata con la gravità di chi sente di scrivere una pagina di storia, ma basta uno sguardo più attento per accorgersi che sotto la patina diplomatica emergono tensioni, contraddizioni e squilibri. In ognuno di questi punti si nasconde la domanda centrale: siamo davanti a una richiesta di pace o a un ultimatum che veste i panni della pacificazione?
Il piano si apre con il cuore della questione: la cessazione delle ostilità se entrambe le parti accettano. Israele arretra le proprie linee, i bombardamenti cessano, il fuoco tace. Ma il prezzo è alto: Hamas deve dire sì. Qui la fragilità è evidente. Quando la pace dipende dall’accettazione simultanea di due nemici irriducibili, diventa una chimera. È una pace condizionata, più vicina a una minaccia che a un patto.
I punti successivi parlano il linguaggio dello scambio. Tutti gli ostaggi restituiti entro 72 ore, vivi e morti. In cambio, Israele libererà 250 detenuti con ergastolo e circa 1.700 palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre 2023, comprese donne e minori. È la logica del dare-avere, tipica dei conflitti mediorientali. Ma la scadenza di 72 ore sembra più un cronometro punitivo che un tempo realistico. Se Hamas non può rispettarla, la clausola diventa un alibi per dire che la colpa è del rifiuto palestinese. Anche qui, l’odore di ultimatum è forte.
Poi arriva il capitolo umanitario: immissione immediata di aiuti, ricostruzione di acqua, elettricità, ospedali, panetterie, rimozione macerie. Una lista che fotografa la realtà di Gaza, città ferita che ha perso infrastrutture vitali. L’ingresso degli aiuti passa per ONU e Mezzaluna Rossa, mentre il valico di Rafah si aprirebbe sotto supervisione internazionale. È un punto che suona giusto e necessario, ma anche qui si cela il potere: chi decide la quantità, chi controlla i flussi, chi garantisce che non diventino strumento di pressione politica? L’aiuto umanitario, in Medio Oriente, è da sempre moneta di scambio e leva di influenza.
Il nono punto introduce la governance transitoria: un comitato tecnico palestinese sotto la supervisione di un “Board of Peace” presieduto da Trump, con la partecipazione di Tony Blair. E qui cade il velo. Non è un piano di pace multilaterale, è un progetto di commissariamento. La Palestina amministrata da un organismo guidato dall’ex presidente USA e dall’ex premier britannico, due figure lontane dalla neutralità, porta con sé il sapore del potere imposto. È la pace calata dall’alto, scritta a Washington e Tel Aviv, e solo ratificata a Gaza.
Il capitolo economico aggiunge la parte seducente: la creazione di una zona economica speciale, investimenti internazionali, sviluppo urbanistico, attrazione di capitali. Trump parla apertamente di trasformare Gaza in una “Riviera del Medio Oriente”. L’immaginario è quello dei grattacieli scintillanti, dei resort moderni, della ricostruzione spettacolare. Ma chi controlla gli appalti, chi gestisce i fondi, chi stabilisce le priorità? La ricostruzione diventa così una nuova forma di potere: non dono disinteressato, ma leva economica che rafforza i forti e marginalizza i deboli.
Il disarmo di Hamas, la distruzione delle sue infrastrutture militari, la smilitarizzazione verificata: questi punti non sono proposte, sono imposizioni. Non c’è alcuna prospettiva politica per i gruppi armati, nessun canale di inclusione o trasformazione. Si pretende la resa totale. È la condizione che segna il confine tra pace e ultimatum. La geopolitica insegna che ciò che viene escluso non sparisce, si sotterra. E se Hamas non trova uno spazio politico, la sua scomparsa formale rischia di trasformarsi in nuova clandestinità, più difficile da controllare.
Gli ultimi punti fissano i paletti. Israele non annetterà Gaza, ma manterrà la possibilità di azione. Il diritto al ritorno dei profughi palestinesi è rinviato a un futuro indefinito. Una Forza Internazionale di Stabilizzazione dovrebbe garantire la sicurezza, ma guidata dagli Stati Uniti e con il coinvolgimento di paesi arabi moderati. È difficile immaginare una missione percepita come neutrale se il comando resta nelle mani di chi è già parte in causa.
E infine, il ventesimo punto, la chiave di tutto: se Hamas rifiuta, Israele avrà pieno sostegno degli Stati Uniti per agire da sola. Non è linguaggio di pace, è linguaggio di ultimatum. Qui il documento mostra la sua vera natura: non è solo un piano di pacificazione, è anche la cornice diplomatica che legittima la guerra se la pace non arriva. È questa ambivalenza che rende i venti punti un testo pericoloso: promessa e minaccia insieme, tregua e arma politica nella stessa pagina.
Sezione II – Gli scenari geopolitici: tregua fragile, stallo o nuova escalation
Un documento, per quanto dettagliato, non vive nel vuoto. Va interpretato nella realtà delle relazioni di forza, delle alleanze e delle percezioni collettive.
Il primo è quello migliore, ma meno probabile: Hamas, sotto forte pressione di Qatar ed Egitto, accetta almeno una parte del piano. Si arriva a un cessate il fuoco stabile, tutti gli ostaggi vengono rilasciati, Israele libera prigionieri, gli aiuti affluiscono, una missione internazionale prende forma. Sarebbe il trionfo di Trump e Netanyahu, la vetrina di una diplomazia vincente. Ma questo scenario ha poche possibilità di avverarsi, perché richiede a Hamas di auto-escludersi politicamente, una resa che la sua leadership non sembra disposta a concedere. Probabilità: 20%.
Il secondo scenario è il più realistico: Hamas non accetta formalmente, ma si apre uno spazio di trattativa parziale. Vengono rilasciati alcuni ostaggi, Israele alleggerisce la pressione militare in cambio, gli aiuti aumentano, ma la tregua resta intermittente. Non è pace, è gestione del conflitto. Gaza vive tra pause e nuove escalation, la ricostruzione non decolla davvero, e il Board of Peace rimane un organismo più mediatico che operativo. È lo scenario del compromesso imperfetto, che prolunga la sofferenza senza chiuderla. Probabilità: 50%.
Il terzo scenario è il più drammatico: Hamas rifiuta apertamente il piano, lo definisce un diktat e non un negoziato. Israele, forte del sostegno esplicito degli Stati Uniti, intensifica le operazioni militari. La Striscia subisce una nuova devastazione, la popolazione civile paga il prezzo più alto, le capitali arabe entrano in difficoltà sotto la pressione delle proprie opinioni pubbliche, mentre Iran e altri attori regionali cavalcano il fallimento per rafforzare la propria narrativa. Sarebbe il crollo definitivo del piano, e forse l’inizio di una fase ancor più pericolosa. Probabilità: 30%.
In tutti e tre gli scenari, emerge un dato di fondo: il documento non nasce da un processo di inclusione, ma da un’architettura di potere. Gli Stati Uniti consolidano il loro ruolo di arbitri interessati, Israele ottiene la legittimazione internazionale per continuare a operare, l’Europa resta spettatrice marginale, i paesi arabi vengono coinvolti come garanti ma senza vera capacità di influenzare. I palestinesi, ancora una volta, sono i destinatari di un piano scritto altrove.
Ed è qui che si annida la vera domanda. Questo piano è davvero uno strumento di pace, o è un ultimatum mascherato? È il tentativo sincero di fermare la guerra, o la costruzione di una narrativa diplomatica che giustifica la continuazione del conflitto? La risposta non è nei comunicati ufficiali, ma nella percezione delle popolazioni che vivono il conflitto. E oggi, a Gaza come in Israele, la fiducia in questo documento è minima.
La pace non nasce dalle liste di punti, nasce dall’inclusione, dalla fatica del dialogo, dalla capacità di guardare anche al nemico come interlocutore. Questo, nei venti punti di Trump e Netanyahu, non c’è. C’è piuttosto la logica della forza, del controllo, della ricostruzione come strumento di potere. Ed è per questo che, a cinquant’anni di distanza da tanti altri piani rimasti sulla carta, il dubbio resta lo stesso: più che una richiesta di pace, siamo davanti a un ultimatum che prepara il terreno alla prossima guerra.
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