Il primo graffito in uno stadio italiano è al San Vito Marulla di Cosenza

  • Postato il 21 maggio 2025
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Il primo graffito in uno stadio italiano è al San Vito Marulla di Cosenza

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Dedicato ad Andrea Ominelli e realizzato nel ’95, il primo graffito in uno stadio italiano si trova al San Vito Marulla di Cosenza. L’opera appena restaurata farà da sfondo, sabato 24 maggio, a una giornata dedicata alla cultura hip hop


COSENZA – Sono passati trent’anni esatti dall’opera messa in essere da Simone Borselli (Simo) e da Giuseppe Gaudio (Ramon) all’interno dello Stadio “San Vito-Marulla” di Cosenza. Si tratta del primo graffito realizzato in uno stadio di calcio italiano e che è stato dedicato ad Andrea Ominelli, giovane scomparso nel 1995. Il passare degli anni ha sbiadito l’opera. Un gruppo di amici ha così deciso di restaurarla per mantenere vivo il ricordo di un tifoso rossoblù, molto amato in città, che frequentava la Curva Sud. Ad occuparsi del restauro sono stati Amaele Serino, Giuseppe Gaudio e Carmelo Gervasi.

Come venne l’idea di un graffito in memoria di Andrea Ominelli?

«L’idea nacque nel 1995. Gli amici di Andrea volevano lasciare un segno importante per questo ragazzo che frequentava la Curva Sud, per avere la sensazione di averlo sempre con loro a tifare il Cosenza. Il graffito in sé e per sé è un’opera effimera – commenta Amaele Serino – e restaurarlo è stato alquanto ostico, ma spinti dagli amici di Andrea e da dj Lugi abbiamo deciso di farlo per ricordare Andrea e soprattutto per far capire alle persone che ci sono dipendenze molto negative nella vita, che potrebbero essere trasformate in dipendenze positive. Abbiamo preso la vecchia bozza di Simone Borselli e osservato quel che rimaneva sul muro, riproponendo il graffito in chiave chiaramente moderna. Ci sarà la scritta 95-2025, una piccola gabbia con un uccello che vola, nel ricordo di un altro grandissimo tifoso come Salvatore Iaccino, conosciuto da tutti come “Uccello”, che ci ha lasciati poco tempo fa».

In cosa consisterebbe la trasformazione dal negativo al positivo?

«La cultura hip hop, il graffito e il rap sono un’arma contro il negativo che c’è soprattutto nelle periferie delle nostre città. È una cultura nata proprio per rendere la vita migliore. Infatti, il motto è “Peace, unity, love e divertimento”. Una cultura che nasce dai primi party con la breakdance, con i graffiti, con i dj e soprattutto con il rap. Sabato 24 maggio, a distanza di 30 anni, terremo una giornata dedicata alla cultura hip hop e allo sport, nella fattispecie al pugilato come arte nobile. Sia la cultura hip hop sia il pugilato sono importanti possibilità nella vita per emergere, per rinascere con uno scopo altamente educativo e pedagogico».

Come si svolgerà la giornata?

«Alle 17 avranno inizio una riunione pugilistica e un dibattito allo Stadio San Vito, presso la sede della palestra popolare. A seguire, l’inaugurazione del graffito restaurato e dedicato ad Andrea e un confronto sull’efficacia dello sport e della cultura hip hop nella lotta alle dipendenze, nel corso del quale interverranno il professore dell’Unical Giancarlo Costabile, la psicologa Vittoria Morrone e il giornalista e attivista Claudio Dionesalvi. Inoltre, con la “Bro Crew” ci cimenteremo in un graffito live. Saranno presenti Gianfranco Tallarico, responsabile della Boxe Popolare con sede nello Stadio San Vito e dj Lugi che, grande amico di Andrea Ominelli, è attualmente considerato uno dei pionieri della cultura hip hop italiana, tra più grandi rapper e producer italiani».

Che ragazzo era Andrea?

«Andrea era un ragazzo come noi, un grandissimo tifoso del Cosenza che venne a mancare nel 1995 a causa di una bruttissima dipendenza. Due anni prima della sua morte fondai con Lugi la South Posse. In quel periodo scrivemmo un pezzo rap dal titolo “Pensieri in rima”, Lugi parla di questo ragazzo e del ricordo che aveva da bambino, di quando giocava con lui, si chiedeva il perché fosse caduto in una dipendenza così negativa».

L’hip-hop è un’arte, quindi, che cerca far uscire il meglio dalle persone?

«L’hip-hop, il rap raccontano la quotidianità. Non sono altro che una finestra sul mondo di oggi, sul mondo di ieri, ma soprattutto sugli anni che abbiamo trascorso noi. Per questo motivo l’evento del 24 avrà l’eloquente titolo “Figli della stessa rabbia”, che oltre ad essere un pezzo della Banda Bassotti è stato un inno della generazione degli anni ’90, in cui sono state messe in atto lotte con i centri sociali contro l’abbandono delle periferie, la ’ndrangheta, la mafia. Lottavamo tutti i giorni, anche con l’uscita nel 1994 del disco della South Posse. Sulla copertina ci sono i volti dei politici di allora e all’interno pezzi come Senatore, Semplicemente immigrato, Fiero, che trattano della distanza tra il popolo e la politica, di immigrazione e della nascita della Lega come partito xenofobo e razzista. Tutti temi, ahimè, ancora attuali».

Lei è stato uno dei fondatori della “Street Art School”. Di cosa si occupava?

«La Street Art School è stata fondata dieci anni fa insieme a Mario Verta, Carmelo Gervasi e Giuseppe Gaudio. Il primo laboratorio lo tenemmo alla Città dei Ragazzi. Lungo questo decennio siamo stati presenti in tantissime scuole della provincia di Cosenza, che hanno voluto il nostro contributo, ma anche nelle carceri minorili, nelle scuole di periferia, quelle più abbandonate: la caratteristica della cultura hip hop è entrare in questi ambienti per tirare fuori il positivo che c’è. Nelle scuole, attraverso i nostri laboratori, della durata di due ore, insegniamo l’arte del graffitismo, arte che c’è da sempre, ma che noi spieghiamo in chiave moderna. Facciamo scoprire ai ragazzi la sua cultura per far capire loro le regole, lo studio, la disciplina, che servono per realizzare nella vita qualcosa di importante».

«Ho visitato quasi tutti i SAI ex SPRAR di Cosenza e provincia, qui ancora di più si avverte la necessità di dare ai ragazzi immigrati l’opportunità di una vita migliore, così da potersi migliorare. In questi “viaggi” ho sentito le pesanti difficoltà che hanno vissuto; alcuni ragazzi sono riusciti a sopravvivere alla tragedia di Cutro. Per noi è una missione di vita, come dovrebbero essere l’insegnamento, l’educazione dei nostri ragazzi e non una mera opportunità di lavoro per fare soldi. Ai ragazzi dico sempre di mettere passione in quello che fanno e di farlo fino in fondo, è fondamentale crescere con la propria passione che porterà a un benessere economico».

Come può portare un benessere economico la cultura dell’hip hop?

«Se un ragazzo ha talento e passione nell’esercitare la breakdance potrà ottenere grandi soddisfazioni sia personali che economiche: la breakdance è una disciplina olimpica. Lo sport richiede tantissimo sacrificio, però porta a grandi risultati. Alcuni rapper, partiti dai ghetti, dalle strade, sono diventati ricchi; writer che prima agivano nell’illegalità sono oggi molto ricercati e ben retribuiti. E poi ci sono i dj, senza di loro non ci sarebbe questa cultura. È una cultura ad ampio spettro, che insegna a farsi una posizione nella società ma soprattutto a vivere».

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