Il “risveglio” di New York – Dalle strade del Bronx ai caffè del Queens: viaggio nell’imprevedibile campagna elettorale di Mamdani

  • Postato il 4 novembre 2025
  • Mondo
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 2 Visualizzazioni

Muhammed ha trascorso parte dell’ultima domenica di ottobre girando per le strade dell’Upper West Side a distribuire volantini che invitano a votare per Zohran Mamdani. “È una zona di New York che conosco bene”, mi dice. È cresciuto in un appartamento proprio sotto Columbia e ci ha vissuto fino ai 24 anni con i genitori, immigrati dal Libano. Poi è volato a Beirut con la voglia di conoscere qualcosa di più del passato di famiglia. La guerra con Israele del settembre 2024 lo ha convinto a tornare a New York. Ora, a 27 anni, lavora come social manager per una società finanziaria e passa ore in giro per la città a fare campagna per il candidato democratico a sindaco. Come reagisce la gente? “Quasi sempre bene. Da stamattina, mi hanno mandato al diavolo solo in tre. Una era russa, diceva che Mamdani è comunista e odia i ricchi. Un altro mi ha guardato in faccia e detto che siamo tutti jihadisti. Un altro si è messo a ridere perché prevede che Mamdani sarà il nuovo Bill de Blasio, un totale cretino”. Alle tre del pomeriggio precise, Mohammed raccoglie le sue cose e cammina verso la metropolitana sulla 103. “A Forrest Hill c’è il comizio di Mamdani. Ci sono Sanders, Ocasio Cortez. Tutti”.

Una straordinaria coalizione

Quel comizio, sapremo un paio d’ore dopo, sarà un successo, con oltre 13mila persone stipate in uno stadio del Queens a urlare il loro sostegno a Mamdani. La cosa non ha molti precedenti per la politica piuttosto addormentata di New York, controllata da tempo immemorabile della nomenclatura democratica, poco propensa a grandi slanci e passioni, orientata con pochissime eccezioni a servire gli interessi dei ricchi e potenti nella città più potente al mondo. Questa volta non è così. Parlando di affitti, sanità, trasporti, dignità per ogni newyorkese a prescindere da etnia, genere, religione, Mamdani ha messo insieme la più straordinaria coalizione che la recente politica americana ricordi. Uno sguardo alla folla del comizio di Forrest Hill lo confermava. Persone di tutte le età – soprattutto molta Generation Z. Gente che sugli spalti dello stadio, prima dell’inizio, raccontava di fare le cose più diverse. Insegnanti, dipendenti pubblici, tassisti di Uber, professionisti della finanza e dell’immobiliare, ballerini di Broadway, venditori ambulanti, stilisti. E ancora: ebrei e musulmani, famiglie dei sobborghi e orsi gay con la harness in pelle nera sul petto, studenti di Columbia e migranti dall’America centrale che puliscono i tavoli dei ristoranti.

E una montagna di soldi per la campagna elettorale

È forse semplicemente New York, in tutta la sua travolgente, solitaria, imprendibile diversità, che la campagna di Zohran Mandani resuscita. Non è poco, in anni in cui l’America è scossa da una strisciante guerra civile. Una prospettiva interessante, su Mamdani, su New York, sull’America, la si ottiene proprio girando con i suoi attivisti, gente che ogni giorno, per ore, fa canvassing, campagna per le strade. Mamdani non è infatti solo riuscito a mettere insieme una coalizione di gente diversa e lontana. Mamdani è riuscito anche a raccogliere un sacco di soldi. Grazie alla combinazione di contributi pubblici e piccole donazioni – hanno donato quasi 18mila americani, offerta media: 121 dollari – il candidato democratico ha messo in banca oltre 16 milioni di dollari. È una montagna di denaro, così tanto che lo stesso Mamdani, a fine settembre, ha dovuto chiedere di non mandare più soldi alla sua campagna. Non avrebbe potuto spenderli, causa limiti che imposti per legge alle spese elettorali. Quanto accumulato gli ha comunque permesso di mettere in piedi una potente macchina organizzativa, sostenuta dall’impegno e dalla passione di circa 50 mila volontari. A dirigerli una veterana delle campagne presidenziali di Barack Obama, Tascha Van Auken.

Lunedì mi è capitato di passare per Mott Haven, spicchio ispanico del South Bronx. È una mattina di sole e vento caldo, quasi primaverile. Le bodegas aspettano i clienti di mezzogiorno. Lungo Willis Avenue, una delle arterie più trafficate, si muovono placidi alcuni gatti. “Non è incredibile?” dice una donna che stringe tra le mani un mazzetto di volantini da cui si desume che Mamdani è “per una New York che puoi permetterti”. “In questa fottutissima città ci sono ancora i randagi per le strade. Succede altrove? No. Solo in questo fottuto posto”. Dice di lavorare alla cassa di una bodega poco lontana e che qui tutti la chiamano mamá Isabela: “È dieci anni che sono seduta a quella cassa. Da quando mi sono congedata dall’esercito. Puzzo del fritto dei loro piatti”. Nonostante continui a lamentarsi, ha il sorriso perennemente stampato in viso, con i capelli corvini raccolti in un turbante verde e un trucco pesante che la fanno assomigliare a Moira Orfei. Dice di essersi messa a far campagna da quando ha visto “quei miliardari del cazzo staccare assegni per fregare Mamdani”.

“È contro i miliardari, nella città con più miliardari al mondo”

In effetti, Joe Gebbia, cofondatore di Airbnb, Bill Ackman, manager di punta degli hedge fund, Ronald Lauder, re dei cosmetici e presidente del World Jewish Congress, hanno riversato migliaia di dollari nel voto newyorkese, usando in particolare un super PAC, “Fix The City”, che ha sguinzagliato per strada centinaia di persone a far campagna per Andrew Cuomo e Curtis Sliwa, i rivali di Mamdani. “Sono passati anche di qua. Giovani. Soprattutto bianchi. Gente pagata, non c’entra niente con la politica”, racconta mamá Isabela, che si offre di farmi fare un giro per le strade intorno. “Hanno lasciato cartelli e adesivi di Cuomo e Sliwa ovunque. Nelle siepi, sui muri. Hanno bussato a centinaia di porte. Cercano di convincere sul fatto che Mamdani manderà New York in bancarotta e che saranno loro a pagare”. Il programma di Mamdani è sostenibile? “Non lo so, ma almeno ci prova”. Dopo un momento, riprende. “Lui dice che i miliardari non dovrebbero esistere. Personalmente, non sono d’accordo. Ma quel ragazzo ha stomaco. Ha le palle. È contro i miliardari, nella città con più miliardari al mondo. Non è questa l’America?”

Astoria, Queens, è solo a un paio di chilometri dal South Bronx ma il paesaggio urbano e umano è diversissimo. Gli enormi e un po’ lugubri condomini in pietra lasciano il posto a isole di villette unifamiliari, dove vivono famiglie e professionisti. Anche la composizione etnica è più varia. Tra i residenti si mescolano vecchi immigrati greci e italiani, quelli più recenti da Africa e Asia insieme a giovani arrivati da tutta America, alla ricerca di un quartiere con segni tangibili di gentrificazione – coffee shops e botteghe di usato chic – senza i prezzi delle case alle stelle.

Su Steinway, la strada dei commerci che corre lungo tutto il quartiere, distribuiscono opuscoli pro-Mamdani (in arabo e spagnolo, oltre che in inglese) Paul e David. 23 e 25 anni, sposati, da due anni a New York, hanno affittato poco lontano da qui una casa intera con giardino dove Paul ha costruito una casetta in legno dove giocare con gli amici alla playstation. “David non la sopporta in casa”, racconta. Paul è informatico. David fa fundraising per un gruppo di diritti LGBTQ. È il loro primo voto a New York. Cosa vi ha convinto di più di Mamdani? Risponde Paul: “Che non l’ho mai sentito una volta parlare di Trump. È rimasto centrato sulle cose da fare a New York”. C’è chi dice che Mamdani possa fare da modello ad altri candidati progressisti in giro per l’America. Risponde David. “Non saprei. L’America è grande. Cambia tutto. Non sappiamo nemmeno se domani avremo ancora una democrazia”. Cosa vi ha spinto a fare i volontari per Mamdani? Rispondono insieme: “Siamo gay. Sposati. Cominciamo ad avere paura”. Dal collo di David pende una collanina dorata con la stella di David. Gli chiedo: dicono che Mamdani sia antisemita, ha detto che non riconosce Israele come Stato ebraico. Alza le spalle: “Non m’importa. Cosa pensa Mamdani dello Stato di Israele non è la mia priorità”.

“La questione è far votare”

Nel mezzo di Washington Square un gruppetto di ragazzi offre ai passanti gli stessi, immancabili volantini di Mamdani. Sono studenti di New York University, Hunter College, CUNY. Studia cinema a New York University Laura, 22 anni, di Boston. “Ce ne andiamo?” continua a chiedere ai suoi compagni. Perché vuoi andartene? “Questo posto è pieno di topi. Quando fa buio, escono e rovistano nei rifiuti”. Che bisogno c’è di fare campagna al Village? gli chiedo. Qui i progressisti vincono facile: “La questione non è tanto per chi votare. La questione è far votare. Molti, anche tra i miei amici, sanno a malapena che martedì ci sono le elezioni”. Come ti spieghi la popolarità di Mamdani? Qualche mese fa era un deputato di New York, sconosciuto ai più. Oggi è uno dei volti della politica americana. “È bravo. Intelligente. E poi ha avuto un alleato inaspettato. Trump. Se non ci fosse Trump alla Casa Bianca, queste elezioni non sarebbero diventate quello che sono diventate”. Hai fatto la volontaria per Mamdani. Pensi di fare ancora politica attiva? Spalanca gli occhi. “E che ne so? L’unica cosa che so è che voglio andare via di qui. Ci sono i topi. Ce ne andiamoooo?” Sorride, quando gli amici infilano i volantini negli zaini.

L'articolo Il “risveglio” di New York – Dalle strade del Bronx ai caffè del Queens: viaggio nell’imprevedibile campagna elettorale di Mamdani proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti