Il soft power della Chiesa alla prova del nuovo Conclave. Scrive Vicenzino
- Postato il 4 maggio 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Mentre papa Francesco ha ereditato dal suo predecessore, Benedetto XVI, un mondo sempre più polarizzato, il prossimo pontefice si troverà ad affrontare un contesto molto più frammentato e pericoloso. Ciò richiede un livello ancora più elevato di abilità diplomatiche e politiche se la Chiesa cattolica intende conservare, promuovere e prolungare il suo storico soft power, ossia la capacità di persuadere globalmente attraverso attrazione e cooptazione, anziché coercizione.
In quanto capo di Stato della Città del Vaticano – il più piccolo Stato-nazione al mondo, con appena 0,44 chilometri quadrati – il Papa funge anche da guida spirituale per 1,4 miliardi di cattolici e da figura internazionale di riferimento morale per molti. A differenza delle epoche passate, quando i pontefici possedevano territori e eserciti, il Vaticano oggi non dispone di hard power nell’era della nuova rivalità tra grandi potenze. Tuttavia, lo compensa ampiamente con il soft power. In sostanza, è una vera e propria centrale di soft power, la cui influenza globale è stata sotto gli occhi di tutti quando oltre 170 leader e dignitari di tutto il mondo si sono raccolti a Roma il 26 aprile per rendere l’ultimo omaggio a papa Francesco.
In un mondo sempre più turbolento, quel funerale storico ha agito anche come un summit geopolitico de facto, offrendo preziose opportunità a amici, avversari e semplici conoscenze per incontrarsi, cercare foto ufficiali o discutere questioni internazionali urgenti. In particolare, ha offerto al presidente statunitense Donald Trump e a quello ucraino Volodymyr Zelensky la prima occasione di un faccia a faccia dal loro scontro alla Casa Bianca del 28 febbraio. Pochi giorni dopo, è stato firmato lo storico accordo sui minerali tra Stati Uniti e Ucraina, sebbene fosse in fase di definizione da settimane.
Durante i suoi 12 anni di pontificato, Francesco ha perseguito un’agenda geopolitica “globale” molto più muscolare rispetto alla tradizionale sfera euro-atlantica, dove risiede la maggioranza dei cattolici e dove il cattolicesimo è storicamente più radicato. I suoi sostenitori sostengono che abbia davvero attuato una politica estera “cattolica” – nel senso greco di “universale” – compiendo oltre 45 viaggi oltremare. I suoi tentativi di ecumenismo e di dialogo interreligioso hanno spesso ottenuto plauso a livello mondiale.
Pur affrontando regolarmente le dinamiche geopolitiche con la forza della sua personalità, Francesco ha spesso suscitato controversie e reazioni diplomatiche avverse. La crescente instabilità globale potrebbe spingere i cardinali, riuniti in Conclave dal 7 maggio, a optare per una guida più cauta. Potrebbe emergere un candidato di compromesso, uno “scelta sicura”, capace di gestire e calibrare le aspettative pubbliche con un realismo sobrio su ciò che è possibile fare piuttosto che su ciò che sarebbe auspicabile.
La priorità data da Francesco a rifugiati e migranti in tutto il mondo lo ha spesso messo in conflitto con le autorità politiche, compresa l’Europa, che riceve flussi dall’Africa e dal Medio Oriente. Gli scontri più duri si sono registrati con l’amministrazione Trump sul tema delle deportazioni e delle condizioni al confine tra Stati Uniti e Messico, sottolineando l’ironia dell’ultimo incontro del Papa con il vicepresidente americano J.D. Vance, la Domenica di Pasqua, il giorno prima della sua scomparsa, il 21 aprile.
Il costante impegno del pontificato per la fine delle guerre ha portato Francesco in zone di conflitto come il Sud Sudan e l’Iraq. I suoi tentativi di mediazione nella crisi ucraina hanno spesso avuto esiti contrari: la Russia ha in gran parte ignorato i suoi appelli, mentre i leader ucraini, frustrati dalle sue dichiarazioni talvolta contraddittorie – da lui intese a mostrare imparzialità – hanno comunque finito per apprezzare un maggiore sostegno papale. Nel conflitto di Gaza, il suo schierarsi apertamente a favore dei palestinesi e la condanna di Israele hanno raccolto applausi nel mondo arabo e nei media internazionali, ma hanno anche complicato la diplomazia vaticana come mediatore e portato i rapporti tra Vaticano e Israele al punto più basso da decenni.
La reazione della Cina alla morte di Francesco è stata sostanzialmente pacata, limitandosi a un formale messaggio di condoglianze. Lo storico avvicinamento tra Vaticano e Pechino avviato da Francesco ha rappresentato una vera “rottura del ghiaccio” dopo il taglio delle relazioni diplomatiche nel 1951. Da allora, la comunità cristiana perseguitata ha operato per lo più in clandestinità, contando oggi circa 40 milioni di fedeli. Pur avendo raggiunto nel 2018 un accordo sulla nomina dei vescovi, Francesco non è riuscito a ristabilire piene relazioni diplomatiche. Il prossimo Papa continuerà certamente a porre la Cina tra le sue priorità, soprattutto alla luce del suo crescente ruolo globale e della crescita del cristianesimo in Asia.
In America Latina, sua terra d’origine, Francesco godeva di grande popolarità, in particolare tra i poveri e le comunità di base. Vi si recava spesso e, ad esempio, visitò la Colombia per sostenere pienamente gli sforzi di riconciliazione con i guerriglieri delle Farc. Un referendum su questo tema fu poi respinto, ma la riforma passò comunque in Parlamento. Francesco fu artefice anche del ristabilimento dei rapporti Stati Uniti-Cuba, poi ribaltati da Trump, pur senza riuscire a promuovere riforme democratiche nell’isola. Durante i suoi 12 anni di pontificato non visitò mai l’Argentina natale, a causa di profonde divisioni interne: i suoi detrattori lo accusavano di essere un “Papa peronista” di sinistra, etichetta che rifletteva le stesse critiche mosse da ambienti conservatori sia all’interno sia all’esterno della Chiesa.
L’imponente presenza di papa Francesco sulla scena internazionale sarà difficile da eguagliare. Il suo pontificato è stato tutto fuorché ordinario e tutto meno che convenzionale: il primo Papa non europeo in 1.300 anni, succeduto a Benedetto XVI – il primo pontefice a dimettersi dal 1415 – e primo gesuita sul soglio di Pietro, appartenente a un ordine noto per la sua autonomia e per la tendenza a sfidare il potere costituito. I suoi sostenitori lo ricorderanno come il “papa dei poveri”, esempio di vita modesta, difensore degli ultimi, paladino dell’ambiente e pronto a confrontarsi con gli avversari dentro e fuori la Chiesa.
Tuttavia, il suo successore dovrà fare i conti con le conseguenze di un’amministrazione spesso disordinata, dell’eccessiva centralizzazione del potere, dello svuotamento di istituzioni e dell’incapacità di affrontare in modo efficace gli scandali sessuali e le dispute teologiche. Per i conservatori tradizionali, Francesco è andato troppo oltre; per i modernisti liberali, non è andato abbastanza lontano. Divisioni che precedevano di gran lunga il suo pontificato e che saranno ancora più evidenti con il nuovo papa. Anche oltre Francesco, è soprattutto l’eredità di Giovanni Paolo II – secondo pontificato più lungo dopo quello di Pio IX, dal 1978 al 2005 – a continuare a influenzare papato e Chiesa oggi.