“Il Tarlo aspetta che il buio torni ad avvolgermi”: esce in libreria “Cenere Zero”, il nuovo libro di Fabio Salvatore sulla lotta alla fibromialgia

  • Postato il 10 giugno 2025
  • Libri E Arte
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Torna in libreria per Aliberti, Fabio Salvatore, regista, scrittore, autore televisivo, fondatore del Magna Grecia Awards. “Cenere Zero”, questo il titolo di un libro-testimonianza, dedicato a chi ha sofferto in silenzio, a chi si è alzato ogni giorno senza sapere come, eppure si è alzato. Fabio Salvatore in queste pagine incontra il dolore, quello di un uomo con un cuore spezzato in un corpo devastato dal Tarlo, la fibromialgia. E con un’anima lacerata dalla depressione, il Cristallo, che “è trasparente, ma riempie la stanza. È gelido, ma non si vede il suo gelo. È perfetto, perché il nulla è perfetto. Lui non ha bisogno di attaccare. Lui aspetta. Aspetta che io abbassi lo sguardo. Aspetta che il buio torni ad avvolgermi. Aspetta che io dica la frase che mi ha sempre sussurrato dentro. ‘Lasciati andare. Non c’è più niente da sentire'”.

Così scrive l’autore in questa opera urbana, pop, rap – fatta di sangue, musica, rabbia, fede e bellezza, perché lui ha scelto di restare e di ricominciare a vivere. Dopo aver raccontato la malattia senza pietà né retorica in Cancro, non mi fai paura (Aliberti) e A braccia aperte fra le nuvole (Piemme), ha firmato spot e progetti sociali su temi di antimafia, giustizia sociale e diritti Lgbtq+, portando avanti una battaglia gentile, fatta di voce e verità. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto del libro:

Non c’è nessun cazzo di tunnel di luce. Solo il volante che scivola via dalle mani. Solo il fiato che si spezza in gola. Solo il panico che mi urla nelle orecchie: «Stavolta non ne esci».

La strada è un fiume nero, un serpente d’asfalto che si contorce nel buio. I fari delle altre auto tremano, si allungano, si distorcono. Il parabrezza è un vetro sporco, un filtro tra me e la realtà. Ma qual è la realtà? Il cuore sta impazzendo. Troppo forte. Troppo veloce. Troppo. Batte nel petto, nelle tempie, nelle mani incollate al volante. È il tamburo della fine. E poi mi colpisce. Come un’esplosione interna. Come una mazzata dritta al petto.

Sto avendo un attacco di panico.

Le dita si serrano attorno al volante. Il sudore mi scivola lungo la schiena. Gocce fredde che mi si insinuano tra le scapole, in un brivido che non porta sollievo.

Non respiro. Non respiro. Non respiro.

L’aria è veleno. Il petto è cemento. Il cervello urla più forte.

«Ora! Ora! Ora!» La gola si chiude. Il respiro è una lama che mi squarcia i polmoni. Il cuore batte troppo. Fa male. Spacca. Mi manca tutto. La realtà. Me stesso.

E poi mi vedo. Là. Nel riflesso del parabrezza.

Occhi spalancati. Pupille dilatate. Il volto di un morto.

Io lo sto guardando morire. Io.

Poi lo vedo. È lì. Sono io. Sono io fuori dalla mia macchina. Sono io in piedi, fermo, immobile. Mi sto guardando guidare. Mi sto guardando morire. Il mio doppio fuori dalla macchina inclina la testa. Mi fissa.

Click.

Accendo la radio. Niente. Solo rumore bianco. Solo una frequenza morta. Un segnale interrotto. Non mi raggiunge. Non mi salva. Sono troppo distante.

Quaranta… cinquanta… settanta chilometri orari…

Lo vedo nel riflesso del parabrezza.

È ancora lì. Ma ora sorride. Un sorriso vuoto, come una crepa viva sulla pelle. Mi sta aspettando. Sta aspettando che io ceda. Sta aspettando che io mi lasci andare. E poi il panico mi prende. Mi

strappa via. Mi trascina giù. Mi spezza.

Il cervello implode.

Sto precipitando. Sto affondando dentro il mio stesso inferno. Sto scomparendo. E il mio doppio ride. Ride di me. Lo vedo mentre scuote la testa, mentre sussurra qualcosa. Le sue labbra si muovono. Ma io non sento niente. Solo il battito del mio cuore.

Ora muori. Ora muori davvero.

Un cartello lampeggia. Uscita cinquecento metri. Dovrei fermarmi.

Dovrei accostare. Ma non posso. Non posso muovermi.

Non posso più esistere. Non so come tornare dentro di me.

Poi, il colpo.

Un clacson squarcia l’aria.

Un’auto mi sfiora. E il tempo si spezza. Le ruote perdono aderenza.

Il volante sfugge via. La macchina impazzisce. Il mondo si inclina. Sto precipitando. E fuori dal parabrezza, il mio doppio mi guarda. Immobile. Con il sorriso ancora stampato sulla faccia.

Mi osserva mentre mi schianto. Lui lo sa. Io lo so. È troppo tardi. Le luci si fondono in una spirale. Le ombre delle auto si allungano come mostri. Il panico prende il controllo. Io non ci sono più. Il mio riflesso nel parabrezza si deforma. Il terrore mi ingoia. Eppure, lui è ancora lì. Fermo. L’ultima cosa che vedo prima che tutto esploda.

Poi il volante scatta. Le ruote mordono l’asfalto. L’auto si stabilizza.

Io rientro nel mio corpo con un colpo secco, come se mi avessero scaraventato dentro a calci. Ma il mio doppio non è sparito.

È dentro di me. Lo sento. Nel battito accelerato. Nel sudore freddo sulla pelle. Nelle mani che tremano. Nella nausea che mi torce lo stomaco. Nella fottuta paura che non se ne andrà mai più.

Silenzio.

Il cuore. Il respiro. Poi il suono dei tergicristalli. Un ticchettio lontano. Un metronomo che mi dice che sono ancora qui. Mi lascio andare contro il poggiatesta. Chiudo gli occhi. La notte è lì. Il mondo anche.

E io? Se sono vivo, perché mi sento già sepolto?

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