“Il turismo ‘esperenziale’? Stiamo facendo tutti le stesse cose, trasformando le destinazioni in prodotti fotocopia. E sull’overturism va cambiato punto di vista”

  • Postato il 10 giugno 2025
  • Viaggi
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ve lo ricordate quando si faceva differenza tra ‘turista’ e viaggiatore’? I primi immaginati a ‘bagno maria’ dentro la grande piscina di un resort all-inclusive, niente affatto interessati a dove fosse il resort, “tanto sono tutti uguali” che sia a Ladispoli o a Santo Domingo poco cambia. Il secondo, invece, s’atteggiava, perché visitando un luogo voleva scoprirne l’anima vera, quella lontano dai sentieri battuti. Poi sono arrivati i social e le foto da pubblicare: tutti sono diventati viaggiatori, fan del turismo esperenziale, ma con i confort tanto amati dal turista. Bene le zone non battute almeno il tempo di uno scatto, perché di zone realmente non battute non ce ne sono praticamente più.

Un punto sulla faccenda del turismo lo fa Andrea Cerrato con Vanity Fair. Intanto, Cerrato è un ‘destination manager‘, “una figura professionale che trasforma una realtà poco nota in una destinazione turistica oppure riposiziona turisticamente una destinazione sulla base di quelle che sono le esigenze del momento”. La prima cosa che spiega è che il cosidetto “turismo esperenziale” non se la passa benissimo: “Basta guardarsi intorno: siamo passati, nel giro di una manciata d’anni, dall’entusiasmo per una tendenza che voleva riconnetterci con la scoperta del mondo a un sovraffollamento di proposte omologate. Un po’ ovunque gli hotel si sono trasformati in hub polifunzionali, i ristoranti in laboratori di cucina aperti al pubblico e i musei in scenografie immersive. Il tutto per venire incontro al desiderio dei turisti di vivere e raccontare esperienze”.

Insomma, come si diceva prima, “raccontare” è importante, forse la cosa più importante. Nel turisimo chiamato appunto “esperenziale” l’enfasi è posta sull’autenticità, sulla narrazione e sul coinvolgimento emotivo del viaggiatore, che diventa protagonista, non semplice spettatore ma Cerrato spiega proprio che di “anima” non c’è più traccia: “Una strategia che funziona per un territorio può non essere adatta a un altro luogo. Purtroppo però stiamo facendo tutti le stesse cose, trasformando le destinazioni in prodotti fotocopia”. E il punto è quello che – da bravi osservatori – avevamo intuito da un pezzo: “(…) Il web e i social hanno avuto un impatto cruciale su questa dinamica. Si è capito che è più facile raggiungere l’utente finale raccontando non le complessità di un territorio ma le esperienze che su quel territorio puoi sperimentare. Se una volta sceglievo il Monferrato come destinazione delle vacanze e solo dopo capivo cosa volevo fare, oggi è il contrario. Questo provoca un’inversione di paradigma nella comunicazione della destinazione”.

Storie di marketing che conosciamo bene, perché le vediamo trasformate in caroselli su Instagram che si somigliano tutti, non solo le stesse destinazioni e le stesse esperienze ma anche fatte nello stesso identico momento. Stando così le cose, per Cerrato viene naturale toccare il punto dell'”overturism”, di cui si parla da tempo e senza che sembri esserci soluzione: “L’overtourism non è un problema per il turista ma per il cittadino. Ecco perché non concepisco le proteste di quei turisti che scelgono luoghi mainstream e poi si lamentano della folla e dei prezzi. Ripeto: il dilemma non è tanto turistico quanto sociale ed è a carico di chi in quei luoghi ci vive. Più che di sostenibilità del turismo parlerei di responsabilità del turismo: il beneficio della comunità locale non può essere inferiore a quello del visitatore”.

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Il Fatto Quotidiano

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