Il vescovo Ambarus: «Sogno quella Chiesa che cammina insieme alla gente»

  • Postato il 22 agosto 2025
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Il Quotidiano del Sud
Il vescovo Ambarus: «Sogno quella Chiesa che cammina insieme alla gente»

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Il vescovo Ambarus parla della sua missione a poco più di un mese dal suo arrivo nella Chiesa di Matera. «Qui grandi potenzialità, non vado con le tesi depressive». «I giovani forse non ci reputano interlocutori credibili, una debolezza che appartiene alla società di oggi e non esclude nemmeno quelli adulti»


È lui ad aprire il portone della sede della Curia arcivescovile di Matera. Monsignor Benoni Ambarus, don Ben, pronto all’intervista esclusiva con l’Altravoce Quotidiano del Sud, alle 8,30 del mattino ha già alle spalle almeno un paio di ore di attività ma si capisce che non saranno quelle a rallentarne il ritmo giornaliero.
Il nuovo Arcivescovo di Matera e Vescovo di Tricarico non rinuncia al caffè prima di affrontare la lunga e franca conversazione.

La crisi delle vocazioni, le povertà non solo economiche, l’intolleranza, il richiamo del disagio giovanile e familiare ma anche l’infanzia in Romania, a Somusca-Bacau.
Non si sottrae a nessuna domanda, guardando al tempo che ci circonda e alla inesorabile spada di Damocle sul capo di tutti: la guerra che non conosce più confini. Le dittature lui le ha vissute ed è l’unico argomento che sfiora con pudore ma lasciando intendere il peso ineludibile di quel ricordo.
I suoi 51 anni, che ne fanno il Vescovo più giovane che Matera abbia mai avuto, lo rendono al tempo stesso una straordinaria fucina di idee e progetti che non nega siano già nella sua mente ma che hanno bisogno di un elemento fondamentale per diventare concreti: la conoscenza attenta e precisa del territorio e del contesto.

IL VESCOVO AMBARUS E LA SUA IDEA DI CHIESA

Don Ben, come preferisce farsi chiamare, ha scelto di procedere per gradi in quello che è uno dei moltissimi incarichi che hanno caratterizzato la sua ricca storia ecclesiastica.
Si guarda intorno per imparare, studia e si informa perchè nulla lo colga di sorpresa ma ama al tempo stesso il contatto umano, anche quello inaspettato, ascoltando anche le voci che non sempre riescono a farsi sentire, perchè sono quelle che hanno più bisogno di diventare centrali, importanti.
Don Ben considera il rapporto con le istituzioni cittadine una occasione per individuare strade e percorsi comuni in cui ognuno è chiamato a fare la propria parte, al di fuori di ogni steccato politico e ideologico.

Conosce la Chiesa attuale. Quella che esce dalle parrocchie e va per strada e per questo sa fin dove le sue gambe possono portarlo, senza entrare in altri ambiti ma avendo chiaro al tempo stesso, cosa è necessario fare.
Tra le criticità lo segnano quelle che arrivano dal disagio giovanile ma anche dallo scollamento del tessuto familiare dalla realtà, elementi che è pronto ad affrontare non per giudicare ma per ‘camminare insieme’, una frase che ripeterà nel corso dell’intervista.
Mondi nei quali la Chiesa deve entrare, farsi sentire e vedere per non lasciare nulla di intentato e raggiungere anche i luoghi meno visibili. Quelli li conosce bene per averli affrontati in realtà più grandi dove è già stato a ricoprire ruoli a vari livelli.

Dopo poco più di un mese a Matera, qual è l’impatto che le ha dato la città?

«In un mese e due giorni sono riuscito a girare Matera. Soprattutto attraverso la ‘scatola interiore’ dell’auto, di passaggio tra le varie località in cui sono stato. L’unica percezione è stata la piena di turisti nel centro storico della città. La prima volta che sono riuscito a trascorrere un paio di ore da visitatore, è stata qualche giorno fa in cui, con una guida e due preti amici di Roma, ho visto un po’ Matera. Ero già stato qui nel 2018 per il convegno delle Caritas diocesane e l’anno dopo, ma solo per poche ore. Dire che conosco Matera vorrebbe dire non rispettare la verità. Mi dico però che arriverà il giorno in cui la mia ‘dittatrice’, l’agenda, mi consentirà di girare liberamente a piedi. Poi però penso anche alle notizie sui vissuti dolorosi di queste ultime ore del territorio (il riferimento è alle due giovani morti a Matera e Ferrandina, ndr.). Ma la celebrazione più impressionante è stata a Ferrandina, domenica scorsa (per le esequie della vittima del tragico incidente del giorno di Ferragosto, ndr.). Notizie che mi sconvolgono perché mi chiedo cosa sta succedendo».

C’è una società che lancia messaggi non sempre positivi e di grande competitività, secondo parametri imposti da altri che non tutti riescono ad affrontare?

«Non posso fare la predica agli assenti. Ma certamente, e lo so bene, non è l’appartenenza a un gruppo che dice chi sono. Ma comprendo che per i ragazzi è un metro di riferimento. So che la solitudine e l’isolamento relazionale per loro sono tremendi. . Sembra che tu non sia nessuno. So anche però che le basi della vita non sono queste; bisogna sapere per cosa e per chi vivi».

Perché tutto questo non arriva ai giovani?

«Forse perché non ci reputano interlocutori credibili. Credo sia una debolezza della società di oggi, giovani e adulti compresi. La soglia di vivere le fatiche della vita si è molto abbassata per tutti. Siamo in grado di mandare a gambe all’aria la vita con scelte definitive perché a un certo punto si ha l’impressione che la situazione sia insopportabile e l’oggi così diventa un metro assoluto della propria vita che, però, non è ciò che si sente oggi ma acquista significato sulle lunghe distanze, sui tratti più lunghi. I giovani non sono i più fragili perché siamo tutti così, anche se loro pagano il prezzo più alto. Non c’è lavoro, non c’è futuro, non c’è pensione, la sanità non funziona, il Pnrr lo pagheranno loro. Secondo me, invece, bisogna entrare in punta di piedi nella loro vita e chiedere: ‘Ti posso essere utile in qualcosa?’. Nonostante questo, la grande sofferenza ieri mi ha trapassato alla notizia delle due morti. Davanti al mistero di una persona bisogna togliersi le scarpe, come sostiene il Libro dell’Esodo. Emettere giudizi, analisi, sentenze, sarebbe una mancanza di rispetto».

Lei considera questi episodi come una sconfitta o, al contrario, un momento di riflessione su cui costruire percorsi diversi?

«Parlo per me: la prima domanda è: che cosa non ho capito in tempo? Poi mi chiedo: cosa possiamo fare insieme e infine quali sono le misurazioni per sintonizzarci e camminare insieme, affrontando fatiche e gioie della vita. Bisogna andare verso una Chiesa che cammina, che quasi non si fa riconoscere come con i discepoli di Emmaus che Gesù affianca mentre stanno andando via da Gerusalemme. Oggi c’è bisogno di questo, è un tratto della nostra epoca, di una Chiesa che non si erge sul piedistallo ma educa. È nell’ascolto reciproco che emergono le ricchezze di tutti.
Nei giorni scorsi con un sacerdote parlavo del rischio che i preti si sentano soli. Tutti sentono il bisogno di essere ascoltati ma quando chiedi se hanno una guida spirituale, non c’è. Paradossalmente tutti sentiamo questo bisogno ma nessuno ha l’umiltà di chiedere, perché c’è questo atteggiamento quasi adolescenziale di aspettare che sia l’altro ad accorgersi di noi».

La crisi della vocazioni nella Chiesa è un dato di fatto evidente, attuale. Lei che ne pensa?

«Qui sto scoprendo l’oro rispetto a quello che ho incontrato finora: un clero abbastanza giovane, un buon numero di seminaristi, devo ancora incontrare la vita consacrata. La crisi vocazionale va di pari passo a quello che stiamo vivendo anche per la vita familiare: anche i matrimoni sono pochi. Tutto ha a che fare con le nostre fragilità d’epoca, con la difficoltà di prendere una strada senza ponte levatoio, in cui mi definisco e faccio una scelta in cui me la rischio, in questo caso fidandomi del Signore.
La definitività fa paura a tutti, l’investimento per il futuro. La mia speranza è che in questo tempo in cui c’è incertezza, è che si faccia come quando si cammina nella nebbia: rallentare il passo e osservare i particolari da cui partire in attesa che diradi».

Come è nata la sua vocazione?

«Avevo circa sei anni, quando pensai per la prima volta: anche io voglio essere così. Ho vissuto un episodio particolare a casa, da bambino: avevo litigato con mio padre e lui era andato in fabbrica per il turno di notte, ancora arrabbiato con me, senza salutarmi. Nella mia testa in quel momento passò l’idea che non tornasse più. La mattina dopo è venuto da noi il parroco che abitava accanto a noi perché io sono cresciuto per molti versi ‘con la campana in casa’. Abbiamo parlato e giocato e mentre andava via, mio padre è tornato a casa.
Il mio ricordo è legato a quel francescano clandestino, a causa della dittatura, che si allontanava con la sua talare dopo essersi dedicato a me. Poi ci sono stati altri episodi legati al comunismo, che costrinsero un ragazzo di 12 anni a vivere cose che non dovrebbe affrontare, prepotenze aggressive».

E oggi purtroppo sembra che le cose non siano cambiate se vediamo quello che ci circonda

«Il fascino del potere tenta tutti, dal più grande al più piccolo schiacciando e forzando per ottenere ciò che si vuole. Questo avviene nelle manifestazioni apparentemente innocue, nelle relazioni corte di amicizia o parentela fino a quelle di governo fra le Nazioni in cui si chiede un prezzo a chi non fa quello che si dice.
È lo scoppiettare di guerre e follia che stiamo vivendo.
Penso a Gaza e alla Cisgiordania, alla guerra dei carri armati contro le fionde, anzi nemmeno più quelle. È come se si fosse scatenata la follia del potere».

L’ultimo Rapporto della Caritas di Matera ha segnalato un livello del disagio molto alto con un aumento delle persone seguite tra cui molti sono minori. Una società parallela, quella del disagio nella quale riportare l’equilibrio economico e sociale è possibile?

«Servono due premesse: la Chiesa sta prendendo troppo sul serio la parola del Vangelo ‘ Non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra’ perché i numeri del Rapporto Caritas rappresentano a mio avviso meno della metà delle situazioni seguite e che hanno chiesto aiuto.
I dati sono quelli registrati ma le carità parrocchiali, quelle dei parroci che conoscono le famiglie o chi prova vergogna nel recarsi alla Caritas, ci dicono altro. C’è una solidarietà nascosta, non raccontata, non registrata.
Dico poi che anche la Chiesa non può cedere alla tentazione di sostituirsi ad altri; deve valere il principio della sussidiarietà.
Quando sono andato a visitare le due mense di Matera, sostenute dall’otto per mille e da una marea di gente, ho chiesto quale fosse la mensa comunale o il contributo che il Comune riconosceva a queste strutture e mi hanno detto: nessuno.
Dopo aver capito bene i nostri numeri, ci siederemo a un tavolo perché una società civile è impostata sui cittadini che pagano le tasse e lo Stato, le istituzioni e le amministrazioni che devono prendersi cura dei più deboli che ci appartengono in prima persona ma allo stesso tempo in una città ci sono due padri: il sindaco e il Vescovo.
I numeri sono tanti, bisogna allargare molto la comunicazione con tutti, fra le comunità parrocchiali, risvegliando di più la coscienza cristiana ma allo stesso tempo fare attenzione perché a volte i bisogni delle persone non solo legati al pasto ma al lavoro che serve. San Vincenzo De’ Paoli diceva: ‘Mentre aiutate i poveri chiedete perdono a loro perché li state umiliando’. Quando un padre o una madre di famiglia si sveglia e pensa di dover andare a chiedere aiuto alla Caritas, nasconde tanto dolore».

Ieri a Metaponto c’è stata una azione dimostrativa di alcuni militanti di Forza Nuova contro la presenza di migranti in cui hanno annunciato ulteriori iniziative. L’area è una zona in cui i migranti sono presenti da sempre e in cui la Chiesa ha messo in atto una serie di attività e iniziative. Come giudica questo episodio?

«Certe cose si commentano da sole. Ho parlato anche con il nostro amministratore a Metaponto. Ho già incontrato i migranti che vivono lì e presto spero di poter stare di più con loro per comprendere tutte le situazioni.
Prendere di mira un disagio e colpevolizzarlo mi crea grande tristezza. Penso che nella nostra società così complessa e difficile con tanti problemi, si debba pensare in chiave positiva a fare tutti qualcosa.
Queste modalità invece fanno clamore solo in quel momento, poi la luce si spegne. È solo pochezza umana e mancanza di veduta e lungimiranza. Ce la prendiamo ancora coi migranti quando sono l’unica speranza, per certi versi? Siamo ancora a questi livelli? Non mi riferisco solo a quell’episodio ma più in generale alla società italiana che se ha ancora questo approccio è rimasta indietro».

Quando le hanno detto che sarebbe diventato Vescovo di Matera, cosa ha pensato?

«Non è andata così. Al Nunzio ho detto: ‘Ancora prima che mi dica dove, le dico di sì’ perché nella Chiesa l’obbedienza non significa che vedo il prodotto e lo scelgo. Io ho scelto a prescindere. Quando poi mi hanno parlato delle due Diocesi ho provato una grande pace e determinazione interiore, sto conoscendo la realtà, il territorio e le tante comunità che affiancherò man mano per camminare insieme».

Lei aveva incontrato don Caiazzo? Vi eravate parlati?

«Sono andato a trovarlo a Cesena. Mi hanno colpito e consolato due cose: la prima è il grande amore che traspariva dalle sue parole sulla chiesa materana e poi il fascino delle grandi potenzialità di cui mi ha parlato. Ci sono tutti gli ingredienti perché sia una cosa molto più grande di quanto non sia adesso. Oggi lo posso dire: forse chi vive qui da sempre, non se ne rende conto del tutto. Le analisi statistiche depressive non sono il racconto della realtà e io non sposerò questa tesi».

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