Immigrazione, lavoro e legalità. Il bivio su cui l’Italia deve decidere
- Postato il 1 luglio 2025
- Politica
- Di Formiche
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Cinquecentomila ingressi regolari programmati in tre anni. Il nuovo decreto flussi segna, numeri alla mano, una delle più rilevanti aperture nel governo della migrazione legale mai adottate nel nostro Paese. Non è un colpo di testa. È una scelta ponderata e, per certi versi, inevitabile. Le imprese chiedono manodopera, le famiglie faticano a trovare assistenza, settori chiave come l’agricoltura e il turismo hanno bisogno di lavoratori stagionali. Ma l’Italia – ed è questo il punto – ha bisogno soprattutto di una bussola politica che distingua, con fermezza e senza ambiguità, tra chi arriva per lavorare e chi arriva (o rimane) per delinquere.
Ecco perché il vero nodo dell’immigrazione non è l’immigrazione in sé. Il problema non sono gli ingressi regolari, ma la gestione disordinata, colpevolmente debole, delle illegalità. Il cittadino comune ha una percezione chiarissima: troppa indulgenza verso chi infrange la legge, troppa burocrazia contro chi cerca di inserirsi regolarmente. In questa asimmetria si annida il corto circuito che rischia di far saltare il sistema. Perché se un irregolare può restare impunito per anni e un lavoratore straniero deve superare un percorso a ostacoli per ottenere un permesso, allora qualcosa non funziona.
Da questo punto di vista, il governo Meloni ha finora tenuto una linea realista. Ha evitato derive ideologiche, ha gestito i numeri con attenzione e ha – cosa affatto scontata – detto no al referendum promosso per concedere la cittadinanza automatica ai figli degli immigrati. Una scelta coerente, perché la cittadinanza non è un premio, né un diritto ereditario: è un traguardo di appartenenza e partecipazione. E quindi, come tale, richiede un percorso serio e condiviso.
Proprio per questo, merita attenzione la proposta avanzata da Forza Italia, in particolare dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè e dal ministro degli Esteri Antonio Tajani: concedere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati solo dopo dieci anni di percorso scolastico continuativo nel nostro sistema pubblico. Non è nel programma di governo, e non potrebbe esserlo perché le sensibilità nella maggioranza sono diverse. Ma è un’idea concreta, che affronta il tema senza ideologia e che punta a far coincidere il concetto di cittadinanza con quello di appartenenza reale e verificabile. Dieci anni di scuola in Italia significano lingua, cultura, valori repubblicani, relazioni tra pari. È un percorso che forma cittadini, non solo studenti.
Su questa base, è possibile aprire un dibattito anche su ciò che viene definito “ius scholae”, a patto però di tener fermo un principio imprescindibile: ogni apertura sul fronte dell’integrazione ha senso solo se accompagnata da un’intransigenza assoluta verso chi non rispetta le regole. Non è accettabile costruire percorsi per i meritevoli se, contemporaneamente, si tollera l’illegalità come se fosse una componente inevitabile del fenomeno migratorio. Nessuna indulgenza verso chi delinque, pugno di ferro verso chi rifiuta le regole della convivenza civile. Solo così si può rafforzare il patto sociale tra italiani e stranieri, tra accoglienza e legalità.
Dunque, bene il decreto flussi, bene la fermezza sulle regole, bene anche l’idea di discutere strumenti nuovi per l’integrazione dei più giovani. Ma non perdiamo di vista l’asse fondamentale: legalità e lavoro devono camminare insieme. Un sistema che funziona è un sistema che accoglie chi lavora, respinge chi delinque e valorizza chi cresce nel nostro Paese condividendone i principi.
Non sarà una riforma facile. Ci saranno resistenze e critiche. Ma la posta in gioco è alta: costruire un’Italia più giusta, più sicura, e capace di guardare avanti senza timori, ma anche senza illusioni.