In nome di Dio. Storia di un’anima ‘sbranata’ da una setta: Dario una mattina di Primavera mi racconta

  • Postato il 3 maggio 2025
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Dario (il nome è di fantasia) me lo sono trovato davanti in una mattina di primavera, seduto al tavolino di un caffè romano con quella che io chiamo “la faccia dei sopravvissuti”. Non è una ruga particolare, non è lo sguardo – è qualcosa di più sottile, un’ombra che passa negli occhi di chi ha attraversato l’inferno conservando abbastanza lucidità per raccontarlo.

Non sapevo ancora che mi avrebbe narrato la storia del suo incontro con una delle più grandi organizzazioni umanitarie internazionali – di quelle che vediamo in televisione quando c’è un terremoto o una carestia, con tanto di logo riconoscibile e volontari sorridenti. Di quelle che raccolgono fondi con la promessa di nutrire gli affamati e vestire gli ignudi. Quelle che, insomma, si presentano come l’incarnazione terrena della carità cristiana.

“Sa qual è il paradosso delle sette moderne?”, mi dice Dario mescolando il caffè. “Non hanno più l’aspetto di culti strani. Si nascondono dietro facciate rispettabilissime, sono organizzazioni internazionali con imponenti bilanci e certificazioni. Esibiscono la carità come un gioiello da vetrina, mentre nei retrobottega macinano anime.”

Dario aveva costruito un’azienda in vent’anni di lavoro duro. Un’attività solida, collaboratori fidati, un grazioso appartamento. Poi era arrivata quella che lui chiama la “conversione”, che come tutte le conversioni autentiche aveva sconvolto la sua vita.

“È stato come essere colpito da un fulmine”, racconta. “Mi sono ritrovato a chiedermi cosa stessi facendo della mia vita. Guadagnavo, spendevo, pagavo le tasse… ma qual era il senso? Volevo servire qualcosa di più grande di me. Volevo dedicare il resto della mia esistenza a Dio e al prossimo.”

Fu in questo stato d’animo, fragile e ricettivo come solo un neofita può essere, che ricevette quella lettera con tanto di sigillo e firma importante. Gli promettevano di poter mettere le sue competenze al servizio di una missione superiore, con un incarico rispettabile, un tetto, un’uniforme e uno stipendio modesto ma dignitoso. La famosa organizzazione internazionale sembrava l’incarnazione perfetta dei suoi nuovi ideali.

“Il responsabile nazionale mi guardò negli occhi con quella sicurezza tipica di chi crede di parlare per conto dell’Altissimo”, ricorda Dario. “Mi fece sentire speciale, eletto. Mi disse: ‘Abbiamo bisogno di persone come lei, la sua esperienza ci sarà preziosa’. E io, nel pieno del mio fervore spirituale, ci ho creduto.”

Se fosse un film, qui inserirei una musica inquietante. Ma Dario non aveva colonna sonora mentre smantellava pezzo per pezzo la sua esistenza, liquidando l’azienda che aveva costruito in vent’anni, svuotando l’appartamento, riducendo la sua vita a qualche scatolone impilato in casa di sua madre. Come un monaco medievale, si spogliava dei beni terreni convinto di rispondere a una chiamata divina. A differenza del monaco, però, non trovò illuminazione ma una truffa ben orchestrata.

“Il contratto? Improvvisamente non era più valido”, mi racconta con un sorriso amaro. “Al suo posto mi offrirono generosamente un ‘tirocinio formativo’. Sa cosa significa? Lavorare gratis per un’organizzazione che raccoglie milioni di euro in donazioni.”

Secondo i dati del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), in Italia operano circa 500 gruppi che possono essere classificati come movimenti religiosi alternativi. Di questi, almeno una sessantina presentano caratteristiche settarie potenzialmente pericolose. E non parliamo solo di strane sette in remote comuni rurali, ma anche di organizzazioni con vetrine internazionali, rapporti con governi e istituzioni, bilanci milionari se non miliardari.

Dario era entrato in uno di questi gruppi. Con le spalle al muro – senza casa né lavoro – accettò quella che chiamavano “opportunità”: una stanza nel loro centro, pasti alla mensa dei poveri o con gli avanzi delle donazioni destinate agli indigenti.

“Sedici ore di lavoro al giorno”, mi dice mentre il cameriere ci porta il conto. “Ho scaricato trecento chili di frutta in un solo giorno, ho svuotato garage, pulito pavimenti. I miei studi, i miei vent’anni di professione, la mia cultura… tutto sepolto sotto compiti progettati per umiliarmi. E il tutto mentre sui loro manifesti promozionali parlavano di dignità umana e rispetto.”

Gli esperti la chiamano “deprogrammazione dell’identità”: prima ti spogliano di ciò che sei stato, poi ti ricreano a loro immagine. “Dimentica chi eri nel mondo”, gli ripeteva uno degli anziani. “Qui sei rinato a nuova vita.” Una “nuova vita” che assomigliava più a morte dell’anima che a resurrezione.

Nel 2024, secondo l’Osservatorio Antiplagio, i casi di manipolazione mentale in contesti settari sono aumentati del 18% rispetto all’anno precedente. La pandemia ha accelerato il fenomeno, creando terreno fertile per chi propone certezze in tempi incerti. E le organizzazioni che si autodefiniscono caritatevoli non sono immuni da questo fenomeno – a volte ne sono addirittura i principali veicoli.

“Dopo mesi di lavoro gratuito mi rispedirono da mia madre come un pacco postale”, continua Dario, guardando oltre la mia spalla, come se vedesse quei giorni proiettati sul muro del caffè. “Poi mi richiamarono offrendomi uno stipendio che avrebbe fatto arrossire un mendicante. Non avevo alternative. Nel frattempo, i loro dirigenti si spostavano in auto di lusso e partecipavano a conferenze in hotel a cinque stelle.”

La storia di Dario prosegue come un manuale di psicologia dell’abuso: una stanza così sporca da causargli problemi respiratori, un materasso che gli provocava dolori lancinanti, umiliazioni pubbliche, processi a porte chiuse basati su “voci” mai specificate. Il direttore sembrava trarre particolare piacere nel degradarlo: “Sembri un cattolico”, gli diceva davanti a tutti, come se pronunciasse la più terribile delle condanne.

“La loro ipocrisia era stomachevole”, mi spiega. “Nei materiali promozionali parlavano di accoglienza e fratellanza universale, ma all’interno praticavano discriminazione religiosa sistematica. Costruivano un linguaggio proprio, un gergo che divide gli ‘eletti’ dagli ‘esterni’. Se saltavo una funzione religiosa, ricevevo messaggi o rimproveri. La stessa organizzazione che raccoglieva fondi per combattere la povertà trattava i propri dipendenti come servi della gleba.”

Secondo un recente rapporto dell’Università La Sapienza, il 72% degli ex membri di sette religiose riporta sintomi di stress post-traumatico a distanza di anni. Il 58% ha sviluppato forme di depressione cronica. Dati che non compaiono nei telegiornali ma testimoniano un’epidemia silenziosa di abusi psicologici.

L’umiliazione finale per Dario arrivò con un’email che annunciava il suo licenziamento, inviata a tutti i dipendenti dell’organizzazione in Italia e all’estero. Un’esecuzione pubblica per distruggere quel poco di dignità che gli restava, orchestrata dalla stessa organizzazione che nei suoi opuscoli parlava di “rispetto della persona umana”.

“Mi hanno fatto credere di servire una causa nobile”, conclude Dario mentre usciamo dal caffè, “mentre servivo solo l’arroganza di persone che usano il nome di Dio e la facciata della carità per giustificare la loro meschinità. È questa la vera oscenità: usare i più alti ideali umani come maschera per i più bassi istinti di dominio.”

Oggi Dario vive ancora in quella stanza a casa della madre. Gli scatoloni che contengono i frammenti della sua vita precedente sono ancora lì, alcuni ancora sigillati. Ha perso tutto: l’azienda di vent’anni, la casa, i collaboratori, la fiducia nelle persone e, cosa più dolorosa, anche buona parte della sua fede.

La sua storia non è unica. Secondo l’ultimo rapporto dell’EURISPES, in Europa almeno 1,2 milioni di persone sono coinvolte in gruppi con dinamiche settarie. Il danno economico causato da queste organizzazioni è stimato in almeno 5 miliardi di euro annui, tra patrimoni sottratti, lavoro non retribuito e costi sociali per la riabilitazione delle vittime. E molte di queste organizzazioni operano sotto l’insegna della carità e della filantropia.

Mentre ci salutiamo, Dario mi lascia con una riflessione che ha il sapore amaro dell’esperienza: “La vera spiritualità non si trova in gerarchie rigide o in obbedienza cieca, ma nella libertà di cercare Dio con cuore sincero, senza intermediari che pretendono di parlare in Suo nome mentre servono solo se stessi. E la vera carità non ha bisogno di vetrine né di bilanci faraonici – si pratica in silenzio, senza attendersi nulla in cambio, tantomeno potere sugli altri.”

Parole sagge. Peccato che per apprenderle abbia dovuto pagare un prezzo così alto. E peccato che mentre scrivo, migliaia di manifesti di quella stessa organizzazione continuino a tappezzare le nostre città, invitandoci a donare per salvare il mondo, mentre dentro le loro mura qualcun altro sta forse vivendo lo stesso inferno di Dario.

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