In Perù la presidente “meno popolare del mondo” destituita con l’impeachment
- Postato il 10 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Era la presidente con meno consenso al mondo, con un’approvazione tra il 2 e il 4%. Dopo anni di proteste per chiederne le dimissioni, nella notte di oggi 10 ottobre il Congresso l’ha destituita per “incapacità morale permanente”. Così Dina Boluarte lascia il Palacio del Gobierno di Lima con 122 voti a favore della mozione e un verdetto simbolico che pone fine a una stagione politica di isolamento, scandali e repressione.
Boluarte è salita alla presidenza nel dicembre 2022 dopo la destituzione e l’arresto di Pedro Castillo, di cui è stata vicepresidente. Entrambi eletti nel 2021 con Perú Libre, il partito di sinistra guidato da Vladimir Cerrón che ha raccolto il voto delle regioni andine e rurali. Avvocata e funzionaria pubblica, rappresenta l’ala più moderata del partito. Poco dopo l’insediamento ha rotto con Perú Libre, da cui è stata espulsa per tradimento ideologico. Una rottura che le ha consentito di restare al potere anche quando Castillo ha tentato di sciogliere il Congresso ed è stato arrestato.
Boluarte si era presentata come presidente “di transizione”, promettendo nuove elezioni in tempi brevi per ristabilire l’ordine istituzionale e la fiducia della popolazione. Ma in pochi mesi la promessa si è rivelata un calcolo politico: dopo aver rinviato la data del voto al 2024, ha smesso di parlarne, scegliendo di restare fino alla fine del mandato, nel 2026.
Quel cambio di rotta ha segnato l’inizio della sua fine. La stessa legittimità che aveva rivendicato come transitoria è diventata un boomerang: Boluarte è stata percepita come una presidente senza mandato, sostenuta solo da un Parlamento screditato e da un blocco di potere conservatore. Le mobilitazioni che inizialmente chiedevano elezioni anticipate si sono trasformate in una protesta radicale contro di lei.
Una situazione precipitata quando tra dicembre 2022 e marzo 2023 la repressione delle manifestazioni è costata la vita ad almeno sessanta persone, per lo più giovani e indigeni del sud del Paese. Da allora il grido “Fuera Dina, asesina” è risuonato ovunque, da Juliaca a Cusco, da Arequipa a Lima. La promessa di stabilità si è trasformata in autoritarismo. Le forze armate sono state mobilitate per mesi, lo stato d’emergenza è diventato quasi permanente, e le regioni ribelli del sud sono state trattate come territori nemici.
Parallelamente, la presidente è stata travolta da scandali che hanno minato ogni residuo di credibilità: il “Rolexgate”, per l’acquisto e la mancata dichiarazione di orologi di lusso, ha mostrato una distanza simbolica enorme rispetto alla popolazione reale, impoverita e disillusa. A questo si è aggiunta la gestione fallimentare della sicurezza: Lima e Trujillo sono state investite da una spirale di omicidi ed estorsioni che il governo non ha saputo controllare.
Il voto di destituzione è arrivato dopo settimane di tensione iniziate con le dure proteste della generazione Z contro presidentessa e parlamento. Boluarte è stata quindi convocata a comparire davanti al Congresso per difendersi, ma non si è presentata. In sua assenza, il Parlamento ha votato quasi all’unanimità la sua rimozione. Persino i partiti che l’avevano protetta per due anni hanno abbandonato la nave: a pochi mesi dalle elezioni generali, nessuno voleva essere associato al governo più impopolare del pianeta.
Subito dopo il voto, il presidente del Congresso, José Jerí, ha assunto ad interim la guida del Paese, mentre la Procura ha chiesto il divieto di espatrio per l’ex presidente, che dovrà rispondere delle accuse di corruzione e di responsabilità per le uccisioni dei manifestanti. La parabola di Boluarte è un riassunto perfetto della crisi peruviana: una leader nata dal voto della popolazione che ha finito per governare contro la popolazione stessa; una figura che ha incarnato, nella stessa persona, la speranza di cambiamento e la restaurazione dell’ordine.
Il suo tradimento della promessa di transizione ha segnato la rottura definitiva con il Paese reale. Nel suo tramonto si riflette la stanchezza di un’intera società, che in otto anni ha cambiato sei presidenti ma non ha mai cambiato il sistema di potere che li genera. Le strade del sud andino lo avevano capito prima del Congresso: la destituzione è arrivata solo a certificare ciò che la popolazione aveva già deciso.
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