Iran: a governare sono le mafie, non gli Ayatollah
- Postato il 4 maggio 2025
- Di Panorama
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«La rivolta nelle piazze in Iran e la crisi economica attuale non basteranno a far cadere il regime». Ad affermarlo con nettezza è Mohsen Sazegara, non certo un iraniano qualsiasi. Alla fine degli anni Settanta, è stato un leader del movimento studentesco iraniano contro lo scià e, durante la rivoluzione del 1979, quando è tornato in Iran, era al fianco dell’Ayatollah
Ruhollah Khomeini. Soprattutto, è stato tra coloro che hanno fondato il temibile Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Irgc. A proposito delle quali, dice oggi: «Rappresentano uno dei tre pilastri del potere indispensabili all’attuale regime per continuare a governare l’Iran».
Regime che a sua volta, secondo Sazegara, è nient’altro che «una cleptocrazia che si basa principalmente sulla sua macchina repressiva. Il cervello di questa struttura risiede nell’ufficio della Guida suprema Ali Khamenei, mentre i suoi occhi e le sue braccia sono il ministero dell’Intelligence e l’Organizzazione dell’Intelligence dell’Irgc. Poi ci sono i soldati di questo apparato, ovvero i Basij, e infine i teppisti pagati per attaccare la gente per strada. Inoltre, anche l’Unità di polizia speciale è una parte fondamentale di questo meccanismo e, in periodi di grave e diffuso malcontento, è l’Irgc ad assumere il comando delle operazioni di repressione. Tuttavia, il dominio oggi è esercitato da oltre 140 bande mafiose che operano all’interno di queste stesse istituzioni e forniscono le risorse finanziarie per la schiacciare qualsiasi opposizione». Sono parole pesanti, che inchiodano il governo di Teheran alle proprie responsabilità e che confermano l’architettura messa in pratica dalla casta degli ayatollah. Non si può certo dire che Sazegara non sappia di cosa parla, visto che negli anni Ottanta è stato vicepresidente dell’Ufficio del primo ministro, poi viceministro delle Industrie pesanti, presidente dell’Organizzazione per lo sviluppo e il rinnovamento industriale dell’Iran, infine viceministro della Pianificazione e del bilancio.
Quando la sua candidatura alla presidenza è stata respinta dal Consiglio dei Guardiani nel 2001, ha avviato una campagna per un referendum sulla riforma della Costituzione iraniana. Per questo nel 2003 è stato arrestato dal ministero dell’Intelligence che aveva contribuito a elevare a istituzione. Espatriato in America, oggi Mohsen Sazegara è «visiting fellow» presso il Washington Institute, dove concentra gli studi sulle prospettive di cambiamento politico in Iran e sulla democrazia in Iran.
E proprio in relazione a ciò, il suo commento è caustico: «Per ottenere la vittoria nella resistenza civile, sono necessari tre princìpi minimi: unità, pianificazione e mantenimento della disciplina non violenta nella lotta. In un piano di resistenza civile di successo, i tre pilastri (proteste, non cooperazione e scioperi, defezioni dal regime) devono procedere insieme per ottenere la vittoria finale. Nei recenti movimenti in Iran, invece, abbiamo assistito solo a proteste di piazza, mentre gli altri elementi sono stati trascurati». Dunque, poche speranze che il rinnovamento in Iran avvenga attraverso le manifestazioni pubbliche. Anche se negli ultimi anni ci sono stati molti segnali in questo senso, ogni volta l’illusione che il regime potesse cadere è svanita nel giro di poche settimane. Nessuna contestazione, per quanto partecipata, ha retto alla prova del tempo e tutte sono state alla fine represse nel sangue.
Quanto al contesto internazionale e alla rete di alleanze/connivenze con il regime di Teheran, il punto di vista dell’ex rivoluzionario islamico è ancor più chiaro: «Con il 7 ottobre 2023 (l’attacco contro Israele che ha fatto 1.200 morti e 250 ostaggi, ndr) l’Iran ha dato il via alla guerra a Gaza. Quell’azione è parte della guerra ombra con Israele, in corso da oltre quattro decenni, e quel giorno è venuta alla luce». Ma insieme al progetto anti-israeliano, è emersa anche tutta la debolezza iraniana: «In meno di due anni, Israele ha soppresso e paralizzato sia Hamas sia Hezbollah. In una sorprendente serie di eventi, il regime di Bashar al-Assad in Siria è crollato in soli 11 giorni, con la conseguente perdita della testa di ponte operativa più critica dell’Iran per le sue forze fiancheggiatrici nella regione. Inoltre, l’Hashd al-Shaabi iracheno (Forze di mobilitazione popolare, paramilitari sciiti alleati con Teheran, ndr) mostra divisioni interne e teme un potenziale attacco statunitense, mentre gli Houthi (i ribelli dello Yemen, ndr) sono sotto un pesante bombardamento americano».
Di conseguenza, prosegue Sazegara, «le forze della Repubblica islamica nella regione sono attualmente al loro punto più debole. Ma ciò non significa che il potere le stia abbandonando». Perché? «In primo luogo, queste organizzazioni, Hezbollah in Libano su tutti, sono partner nella produzione e distribuzione di stupefacenti, in particolare la pillola Captagon, nota anche «pillola jihadista» (a base di amfetamine, ndr), che viene venduta in Europa, Usa e Paesi arabi. In effetti, la Repubblica islamica ha creato una vasta rete di traffico di droga che si estende da Kabul al Venezuela. In secondo luogo, il governo iraniano cerca di mantenere in vita questi gruppi fornendo loro fondi e attrezzature, con l’intenzione di riarmarli al momento opportuno. E non si dimentichi che gran parte delle risorse finanziarie per questi gruppi vengono dalle stesse reti di potere e ricchezza mafiose in Iran, che sono a loro volta collegate alle cleptocrazie di Russia, Cina, Venezuela e oltre 30 altri Paesi non allineati con l’Occidente».
Ma che cosa ci fanno i Pasdaran in Sudamerica? Davvero un governo fondamentalista islamico, una teocrazia per di più, crea alleanze così lontane e sofisticate solo per trafficare droga e finanziare attività terroristiche? «C’è di più» dice Sazegara. «La Repubblica islamica sostiene attivamente la conservazione delle dittature in Paesi come, Cuba e Bolivia, con l’aiuto della Russia. Un esempio è il Venezuela, dove ha contribuito a sopprimere il movimento guidato da Juan Guaidó e a mantenere Nicolás Maduro al potere. Le attività economiche, come la costruzione di alloggi, i progetti petroliferi e altri, costituiscono un’altra parte del coinvolgimento della Repubblica islamica. In Paesi come l’Argentina, l’attentato di Buenos Aires che prese di mira civili ebrei è un esempio notevole delle capacità di agire e dell’influenza del regime iraniano in America Latina (il 18 luglio 1994 un furgone carico di tritolo esplose nel seminterrato di un’associazione israelita, facendo 85 morti; per la strage, poche settimane fa la procura ha emanato un ordine di cattura internazionale nei confronti di Ali Khamenei, ndr). Oggi non è diverso: in Brasile, per esempio, Hezbollah sta lavorando per espandere la propria influenza tra i diversi milioni di cittadini di origine libanese espatriati».
Nonostante questa aggressività, sembra che Teheran stia valutando la possibilità di siglare un nuovo accordo nucleare con gli Stati Uniti, quale primo passo verso un accordo più completo e duraturo. Qual è il vero piano di Ali Khamenei? «La Guida suprema è sotto pressione da tre parti. Deve affrontare una situazione economica disastrosa e il timore di rivolte popolari, che lo spingono a cercare la revoca delle sanzioni. Ma deve anche tenere testa alle fazioni ricche e potenti che traggono miliardi di dollari di profitto dalle sanzioni e che, per questa ragione, non vogliono vederle revocate. La terza fonte di pressione proviene dalla Russia attraverso gli agenti d’influenza di Mosca che si muovono all’interno del governo iraniano e girano intorno a Khamenei stesso: loro si oppongono a ogni miglioramento delle relazioni dell’Iran con gli Stati Uniti, l’Europa e i Paesi liberi. Per queste ragioni, l’Ayatollah è oggi confuso e indeciso. Più di tutto, però, lui e i suoi comandanti sono profondamente preoccupati per un possibile attacco americano perché non vogliono essere coinvolti in una guerra».
Khamenei però ha 85 anni, è malato. Dunque chi dopo di lui? «Per oltre un decennio, ha pianificato la propria successione, gettando le basi affinché il suo secondo figlio, Mojtaba, gli succeda. Tuttavia, la morte di Khamenei aprirà senz’altro una crisi politica e l’ascesa del suo erede alla leadership dovrà affrontare numerose sfide».