Iran, l’opposizione critica Israele: “Il regime non si rovescia con le bombe”. Ma il figlio dello Shah sogna il potere

  • Postato il 21 giugno 2025
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La guerra tra Israele e Iran va avanti ormai da una settimana, scandita dagli strikes israeliani su diverse città iraniane e da quelli – spesso simmetrici, speculari – iraniani in rappresaglia, soprattutto su Tel Aviv e Haifa. Sembra ormai evidente che l’obiettivo dello Stato ebraico non sia (più?) solo quello di “riportare indietro” o addirittura distruggere il programma nucleare iraniano, bensì di stimolare, favorire, provocare, direttamente o indirettamente, la caduta della Repubblica islamica, cioè l’architettura istituzionale del potere in Iran da 46 anni. Al di fuori del Paese, il dibattito su un eventuale futuro post rivoluzionario non si è mai spento, anzi è stato reso ancor più visibile da una serie di celebri personaggi della diaspora iraniana.

Alcuni di questi – ed è il caso di giornalisti e attivisti come Masih Alinejad o Arash Azizi – più che proporsi come opposizione politica all’estero alla Repubblica islamica hanno cercato nel tempo di mettere in evidenza le sue storture, oppure di dare risalto – specie sui social media – ai movimenti di protesta della società civile iraniana, soprattutto quella urbana, progressivamente sempre più insofferente rispetto all’illiberalità del sistema. Accomunati da una più o meno netta opposizione alla Repubblica islamica, le loro reazioni all’attacco di Israele in Iran sono state più eterogenee di quanto forse ci si potesse attendere.

Masih Alinejad, attivista iraniana-americana che ha dovuto lasciare l’Iran nel 2009, è nota soprattutto per aver dato vita a una delle più sistematiche campagne “anti-velo“, fondando anche una nota pagina Facebook, My stealthy freedom, nella quale invitava le iraniane a pubblicarvi foto in cui non indossavano l’hijab che in Iran è obbligatorio per legge. Alinejad, estremamente attiva su X nella sua campagna per il rovesciamento del regime, dal 13 giugno ha espresso sin da subito e primariamente preoccupazione per i suoi compatrioti durante gli attacchi israeliani, biasimando Trump per il suo invito a evacuare una megalopoli come Teheran, salvo poi esprimere soddisfazione per l’eliminazione di una serie di figure militari della Repubblica islamica, ma anche per il bombardamento della tv di Stato, “la stessa che ha trascinato la mia famiglia a disonorarmi in diretta”.

Su X è ancor più attivo il ricercatore iraniano Arash Azizi, forse più pragmatico della Alinejad, che ha condannato chiaramente l’attacco israeliano, per poi fare lo stesso con la rappresaglia iraniana, una volta appurato che erano stati colpiti anche dei civili, sottolineando in particolare “l’incapacità del regime di difendere la popolazione da una tale aggressione”. Azizi non sembra particolarmente suggestionato dalle possibili conseguenze politiche di questo attacco, tantomeno dall’idea che possa provocare un cambio di regime: “_Il futuro più probabile per l’Iran nel medio termine è che una frangia del regime prenda il potere, firmi una tregua con Israele e gli Usa ponendo fine alla sua ossessione anti-israeliana e diventando un più normale Stato autoritario”.

Nazanin Boniadi, attivista e celebre attrice, ha più blandamente condannato gli attacchi, sottolineando sui social che “gli iraniani innocenti sono colti nel mezzo tra fuoco straniero e tirannia” e che “se c’è qualcosa che unisce la gran parte degli iraniani è la difesa dell’integrità territoriale del Paese. Ogni tentativo da parte di potenze straniere di dividere l’Iran provocherà il compattamento della società civile contro quella minaccia”. Nei giorni successivi, come molte altre celebrità della diaspora, ha più o meno esplicitamente invocato la rivolta, condannando le manifestazioni in solidarietà all’Iran nelle quali sventolavano la bandiera della Repubblica islamica in cui non si identifica. Una serie di attivisti e artisti iraniani, tra cui il premio Nobel Narges Mohammadi, l’avvocatessa Shirin Ebadi, i regist Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi hanno poi pubblicato una lettera di ferma contrarietà alla guerra in corso – chiedendo a Trump di fermarla – per la quale si biasimavano anche le autorità iraniane (anche se le colpe vengono fatte ricadere su Israele), il cui programma nucleare andrebbe fermato e chiedendone “le dimissioni istantanee” proprio mentre le autorità israeliane affermavano che l’impresa militare iniziata lo scorso 13 giugno “potrebbe determinare la caduta del regime”.

Di avviso e postura un po’ diversa il ricercatore Esfandyar Batmanghelidj, fondatore del think thank Bourse&Bazaar, esperto di questioni economiche ed energetiche, nonché degli impianti sanzionatori che nel corso degli anni sono stati applicati contro l’Iran. Sul Guardian, Batmanghelidj ha preso le distanze dalla lettera sopra citata e scritto non senza una certa amarezza che “i Paesi, come i missili, seguono delle traiettorie. Nei giorni scorsi, quella dell’Iran è cambiata drammaticamente a causa dei bombardamenti israeliani. Gli iraniani non sono più in controllo del loro futuro e si ritrovano a guardare le traiettorie dei missili balistici domandandosi cosa sarebbe potuto essere”.

Il ricercatore indipendente ha provato a fornire altre chiavi di lettura di quanto sta accadendo, sottolineando come questo attacco abbia interrotto e rischi di pregiudicare quello che a suo avviso era un lento e graduale processo di ripresa economica e di cambiamento socio-politico interno che si era messo già in moto, a partire dal 2022, quando “le autorità hanno di fatto dovuto riconoscere il movimento Donna, Vita e Libertà“. Batmanghelidj ha osservato come l’establishment abbia di fatto favorito la inattesa vittoria del riformista Masoud Pezeshkian alle elezioni presidenziali dello scorso anno, dopo la morte in un incidente del suo predecessore, il principalista Ebrahim Raisi, forse il più vicino in assoluto alla Guida Suprema degli ultimi cinque o sei presidenti iraniani. Pezeshkian, da presidente in minoranza parlamentare, ha definito “ingiusta” la nuova legge sull’obbligo del velo passata lo scorso anno dal Parlamento. In generale, osserva, il velo non è più un tabù. E in effetti sono numerose le testimonianze in questi anni dalle grandi città iraniane, dove un numero sempre più alto di donne va di fatto in giro senza indossarlo.

Reza Ciro Pahlavi, 65enne figlio dell’ultimo Shah esiliato dalla rivoluzione, è stato invece tra i pochi a sostenere di fatto l’intervento militare israeliano contro il Paese in cui è nato, sapendo che un suo eventuale – nonché complicato – successo che dovesse stimolare la caduta del regime lo vedrebbe fortemente sponsorizzato tanto da Israele – del quale da tempo si è dichiarato amico – quanto dagli Stati Uniti come nuovo leader del Paese. Pochi minuti dopo i primi bombardamenti israeliani in Iran dello scorso 13 giugno, Reza Pahlavi twittava: “Ali Khamenei, lo stolto leader del regime anti-iraniano della Repubblica islamica, ha ancora una volta coinvolto l’Iran in una guerra di cui sono i responsabili. Il mio messaggio all’esercito, alle forze dell’ordine e di sicurezza è chiaro, separatevi dal regime e unitevi al popolo. Alla comunità internazionale dico: non date un’altra corda di salvataggio a questo morente regime terrorista”. Nei giorni seguenti, con gli altri strike di Tel Aviv e le risposte di Teheran, ha invocato sollevazioni “che possono dare un colpo letale a questo regime morente”, parlando di “momento migliore per rovesciare il regime”, di “non temere instabilità o guerre civili dopo la sua caduta perché abbiamo un piano per il suo futuro e per i primi cento giorni” e d’altro canto difendendo, ospite di un programma sulla Abc, le prerogative israeliane. Sua moglie Yasmine Etemad-Amini, su X ha apertamente sostenuto i bombardamenti israeliani, anche dopo aver saputo che avevano provocato almeno un centinaio di morti civili. Il suo tweet è stato ripreso e condannato proprio dal citato Arash Azizi.

Seppur con una storia tormentata alle spalle ed un presente estremamente opaco, l’opposizione iraniana all’estero oggi è formalmente – nonché molto parzialmente – rappresentata dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (NCRI), espressione di fatto dei Mojahedin-e Khalq (Combattenti del Popolo iraniano – MEK), formazione guidata oggi da Maryam Rajavi e fino al 2003, anno della sua misteriosa scomparsa in Iraq, dal marito Masoud Rajavi. La loro storia è molto particolare: inizialmente animato da un peculiare orientamento marxista-islamico, il MEK è stato tra i gruppi più attivi durante i moti rivoluzionari del 1978-79. Estromesso dal potere in seguito alle tipiche lotte intestine post-rivoluzionarie, il MEK si è rivoltato sin da subito contro la nascente Repubblica islamica, assassinando il suo secondo presidente, Mohammad Ali Rajaei, nel 1981.

Con l’aggressione di Saddam Hussein all’Iran, i suoi membri si rifugiarono proprio in Iraq dove combatterono contro il proprio Paese al fianco del Rais iracheno, guadagnandosi in Iran l’appellativo di monafiqeen, gli ipocriti. Nel corso degli anni, in modo graduale, hanno abbandonato il loro orientamento originario e si sono ripresentati via via come una “alternativa democratica” al regime coinvolgendo anche il Partito democratico del Kurdistan iracheno. La popolarità del MEK , più che da un quasi nullo radicamento in Iran, deriva forse più dalla visibilità che hanno ottenuto dopo esser stati accolti nei Parlamenti di una serie di Paesi europei – tra cui l’Italia -, presentati appunto come una alternativa democratica all’attuale regime. Forse per la sua storica opposizione allo Shah (e quindi anche al figlio), o anche per considerazioni tattiche, il Mek recentemente ha preso le distanze dall’attacco all’Iran, sottolineando come il regime debba cadere con la rivolta popolare e non con la guerra.

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