Iraq, l’estrazione del petrolio nelle mani delle compagnie cinesi. Pechino si mette alla testa di un nuovo ordine energetico globale
- Postato il 7 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il vuoto lasciato nel settore energetico iracheno da grandi compagnie occidentali come Exxon e Shell sta trovando sempre più spesso la Cina pronta a riempirlo. Non solo attraverso le note China National Petroleum Corporation (CNPC) o Sinopec, giganti già presenti in Iraq che già controllano oltre la metà della produzione giornaliera di circa 4,7 milioni di barili nel Paese, ma anche attraverso aziende meno conosciute al grande pubblico, più “agili” dal punto di vista operativo e più disposte ad accettare alti margini di rischio, maggiori anche di quelli che i giganti cinesi già contemplano, rispetto ai loro competitor occidentali.
Operatori come Geo-Jade Petroleum Corp, United Energy Group, Zhongman Petroleum and Natural Gas Group, Anton Oilfield Services Group stanno intensificando le loro operazioni nel Paese, con investimenti che si misurano in miliardi di dollari. L’obiettivo dichiarato è arrivare a produrre 500.000 barili al giorno entro il 2030, contribuendo in modo sostanziale al rilancio della capacità produttiva irachena, ma anche a rafforzare la penetrazione strategica cinese in Asia occidentale. L’Iraq, secondo produttore mondiale di petrolio, da qualche tempo ha annunciato l’intenzione di attrarre nuovi investimenti esteri, al fine di portare a produzione di greggio a 6 milioni di barili giornalieri entro il 2029.
Negli ultimi anni, come accennato, colossi come ExxonMobil e Shell hanno progressivamente disinvestito dal Paese, scoraggiati da una serie di fattori: un ambiente operativo sempre più ostile, con alti gradi di corruzione della burocrazia statale, la cronica instabilità politica, il peso crescente delle milizie filo-iraniane, e, non meno importante, i margini ridotti dei contratti imposti da Baghdad: questi ultimi, noti come Technical Service Contracts, garantivano fino a due anni fa una remunerazione fissa alle compagnie straniere per ogni barile estratto, rendendo quindi scarsamente appetibile ogni rischio aggiuntivo. Nel 2023, tuttavia, il governo iracheno guidato da Muhammad Shia Al Sudani ha introdotto una svolta tanto significativa quanto inosservata: la graduale transizione verso contratti basati sul modello del profit sharing che permettono una suddivisione degli utili derivanti dalla vendita del petrolio. Il cambiamento, pur mantenendo un certo grado di controllo da parte dello Stato iracheno, ha attirato l’interesse di attori meno convenzionali, con strutture aziendali più snelle e maggiore propensione al rischio d’impresa. Ciò ha permesso quindi l’ascesa delle compagnie cinesi, tutte ibride, a metà tra il settore privato e quello statale, che condividono un approccio aggressivo, un certo pragmatismo operativo e una tolleranza al rischio molto più elevata delle controparti occidentali.
Nel solo 2024 queste compagnie hanno vinto la metà delle concessioni di esplorazione petrolifera messe in gara dal governo iracheno. Geo-Jade, in particolare, ha puntato molto – con un impegno di 848 milioni di dollari – sul campo di South Basra, un’area cruciale per la produzione nazionale. Le tempistiche con cui queste aziende riescono a sviluppare nuovi impianti – due o tre anni – sono notevolmente inferiori ai circa dieci anni medi richiesti dalle compagnie occidentali. Inoltre, operano con costi di gestione inferiori, grazie a una forza lavoro meno costosa e a una maggiore flessibilità nei contratti e nei fornitori. Per di più queste aziende non solo si integrano facilmente con le reti locali di subappalto, spesso legate a milizie o strutture parallele e/o informali di potere, ma sanno anche come trattare con i livelli intermedi della burocrazia irachena, senza la “rigidità procedurale” che invece penalizza molte multinazionali occidentali.
La crescente presenza cinese in Iraq non si limita al settore energetico. Nel 2021 Baghdad aveva aderito al progetto della Belt and Road Initiative (BRI), e negli anni successivi Pechino ha firmato con il governo iracheno una serie di accordi quadro, il più noto dei quali è il Oil-for-Projects, che prevede lo scambio di barili di petrolio con infrastrutture: scuole, ospedali, strade, centrali elettriche. Un modello che si è dimostrato efficace, almeno nei primi anni, per aggirare la corruzione dilagante e garantire visibilità agli investimenti cinesi.
Tuttavia, con l’entrata in scena delle compagnie di medio calibro nel settore petrolifero, il baricentro dell’influenza cinese si sta spostando: non più solo “petrolio in cambio di infrastrutture”, ma anche estrazione diretta, profitto e controllo strategico sul terreno. Una dinamica che potrebbe avere conseguenze rilevanti sul futuro dell’equilibrio geopolitico in Iraq. In questo senso, i progetti più economici messi in piedi da queste società potrebbero secondo alcuni ritardare l’introduzione in Iraq di tecnologie estrattive più avanzate. Muwafaq Abbas, ex capo delle operazioni di estrazione del campo di Basra, ha riferito all’agenzia Reuters della sua preoccupazione riguardo agli standard tecnici e di trasparenza delle aziende cinesi, che sono già state criticate per il fatto di fare eccessivo affidamento su manodopera e staff cinese, relegando la forza lavoro irachena a ruoli di minore rilievo.
Seppur in via e forma indiretta, qualunque analisi della presenza cinese in Iraq non può prescindere dal ruolo di Teheran, attore strutturalmente radicato nel Paese. L’Iran, che gode di un’influenza politica, religiosa, economica e militare pressoché incontrastata nelle regioni sciite del sud, è da tempo un alleato strategico della Cina, soprattutto nel quadro dell’asse “anti-egemonico” che Pechino promuove per contenere l’influenza statunitense in Asia occidentale. La cooperazione energetica tra Cina e Iran, sancita ufficialmente dall’accordo venticinquennale firmato nel 2021, ha già prodotto effetti anche in Iraq. In un certo senso, la penetrazione cinese nel settore petrolifero iracheno avviene anche grazie alla “copertura” politica offerta dall’Iran, attraverso le reti informali ad esso connesse. In molte delle aree in cui operano le compagnie cinesi – come nel citato governatorato di Basra – le forze di sicurezza sono di fatto controllate da milizie filo-iraniane, che garantirebbero protezione e stabilità in cambio di relazioni d’affari o tangenti.
Per Teheran, la presenza cinese rappresenta anche un’opportunità: oltre a bilanciare la pressione occidentale, può contare su partner tecnologici ed economici capaci di portare avanti progetti infrastrutturali e produttivi che l’Iran, a causa delle sanzioni, non potrebbe finanziare in via esclusiva. Pechino, d’altronde, evita accuratamente ogni intromissione negli affari interni iracheni, presentandosi come partner “neutrale” e rispettoso della sua sovranità – un approccio apprezzato sia dalla stessa Baghdad che da Teheran. Il consolidamento del ruolo cinese in Iraq – accanto al relativo declino occidentale – è emblematico di un cambio di paradigma più sostanziale. Le grandi multinazionali energetiche euro-americane, zavorrate da vincoli normativi e necessità di “de-risking”, stanno progressivamente lasciando spazio a nuovi attori che operano con logiche diverse: più flessibili, più tolleranti del rischio, meno trasparenti, ma anche più radicati nel tessuto geopolitico della regione, che hanno probabilmente imparato a conoscere meglio, e più da vicino. In questo contesto, l’Iraq diventa una sorta di laboratorio di un nuovo ordine energetico globale, in cui la competizione non si gioca solo sui barili estratti, ma anche sulla capacità di adattarsi ai contesti locali, stringere alleanze fluide e investire sul lungo periodo in territori instabili. Pechino, e le sue imprese satellite, sembrano averlo capito prima e meglio di altri.
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