Jazz, il maestro e l’allievo: Enrico Intra sul palco con Francesco Cavestri a Bologna

  • Postato il 6 novembre 2025
  • Di Panorama
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Un ragazzo di ventidue anni con la conoscenza musicale e l’esperienza di un musicista che naviga sui palcoscenici del mondo da decenni. Questa è l’impressione che si ha chiacchierando con Francesco Cavestri.

Pianista, compositore e divulgatore, inserito da Forbes Italia nella lista Under 30 per il suo contributo all’innovazione musicale, premiato per due anni di seguito come più giovane miglior talento dalla rivista Musica Jazz.

Dopo il sold out al Blue Note di Milano lo scorso 23 settembre, Francesco Cavestri è entrato a far parte della prestigiosa famiglia degli Artisti Steinway & Sons, che raccoglie i più importanti pianisti del mondo, di cui fa parte, per esempio, Ludovico Einaudi. Un orgoglio non da poco.

Francesco, hai iniziato a suonare prestissimo, a quattro anni, prima con un percorso di pianoforte classico fino a innamorarti del jazz all’età di dodici anni

““Kind of Blues” di Miles Davis. Questo è il disco che mi ha aperto al mondo del jazz e mi ha fatto follemente appassionare a questo genere. Quello che mi affascinò di questa musica fin dal primo ascolto fu il senso di libertà, il senso di poter creare estemporaneamente, di non doversi attenere rigidamente a schemi prefissati, ma poterci giocare, per poter esprimere liberamente o quasi quello che si sente in quel momento. Il primo brano di questo disco, “So What”, è un brano di nove minuti, costruito su soli due accordi che si ripetono e su cui i musicisti plasmano, dialogano, narrano storie create estemporaneamente.

Confesso che la scoperta  effettiva del jazz è stata a dodici anni, ma già prima prendevo brani dei Led Zeppelin, Coldplay, Dire Straits, di David Bowie e ci improvvisavo sopra, prendevo gli accordi creavo musiche e melodie mie: in pratica facevo jazz senza neanche saperlo.”

Nemmeno adolescente riarrangiavi i Led Zeppelin e David Bowie. A proposito di cultura musicale. Laurea a pieni voti in pianoforte jazz al Conservatorio di Bologna, due borse di studio al Berklee College of music di Boston e una alla New School di New York.

Che cos’ha significato e  cosa significa suonare negli Stati Uniti, patria del jazz?

“È una sensazione ovviamente meravigliosa, diciamo che ti senti un po’ ospite, perché è come se tu portassi la tua visione di una forma artistica che nasce lì, come se dovessi portare il testimone, ma con grande rispetto, ed è bellissimo. Io per esempio ho suonato in un jazz club di Boston che si chiama Wally’s jazz club, un club a gestione famigliare che esiste da settant’anni, un club piccolo, ma con una bella predisposizione verso i giovani musicisti, perché da lì sono usciti tanti artisti, allora sconosciuti, diventati la bibbia del jazz. Ho suonato anche a New York, nei tipici Jazz Club sotto terra, dove per entrare devi scendere le scale e che sembrano parlare un altro tempo.

La cosa più incredibile che mi ha lasciato quell’esperienza è stato vedere come quei locali, ancora oggi, siano estremamente cool e frequentati dai giovanissimi. Un approccio al jazz totalmente vivo e contemporaneo.”

Un mondo diverso rispetto all’Italia

“Qui spesso il jazz viene visto come un genere trascorso, un po’ passato. Negli Stati Uniti, quello che mi ha colpito è il fatto che loro intendono il jazz come genere estremamente vivo, duttile, come genere che si interfaccia con la musica elettronica, l’hip hop. Apre la collaborazione musicale a generi diversi.

Spesso il jazz, soprattutto nel passato è stato visto come un genere puro che non si mescolava agli altri. In America, già anni fa, per esempio, il chitarrista jazz Pat Metheny aveva fatto un brano con David Bowie. Gli Stati uniti hanno da tempo sdoganato questa “purezza”, in Italia dovremmo farlo di più, anche se,  abbiamo un personaggio, che negli Anni Settanta, questa contaminazione, l’aveva già svincolata: Enrico Intra.”

Una leggenda del jazz italiano, fondatore dell’ Intra’s Derby Club di Milano, lanciando artisti come Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. E con cui, domenica 9 novembre ti esibirai in un evento speciale, intitolato “Two Generations in Jazz”

“Ci esibiremo in duo nella mia città natale per il Bologna Jazz Festival, tra l’altro al Bravo Cafè, locale dove io ho iniziato a esibirmi per la prima volta all’età di quindici anni, dove la musica dal vivo per me ha avuto inizio. Lui avrà un pianoforte gran coda, io avrò delle tastiere e dei sintetizzatori, e a un certo punto ci scambieremo i ruoli e ci alterneremo gli strumenti.

Enrico Intra è uno dei grandi innovatori e pionieri del jazz, tant’è che io, ancora quando l’idea di questo progetto non era nemmeno nata, l’avevo citato nella mia tesi di laurea, proprio a dimostrazione che lui per me è stato fonte di grande ispirazione, un grande mentore per tutto il mio percorso artistico. Suonare con lui, per me, significa non solo condividere un palco con un’icona della scena jazz, ma anche affiancarmi a un artista che ha avuto un fortissimo impatto per i miei percorsi.”

Una grandissima differenza di età: il maestro Intra ha da poco festeggiato i suoi splendidi novant’anni, e tu sei nato nel 2003…

“Sessantotto anni di differenza anagrafica, ma uniti dalla comune visione del jazz come musica contaminata e dalla sfrenata curiosità di esplorare le possibilità sonore. L’ho citato nella mia tesi proprio per questo suo atteggiamento assolutamente pionieristico e visionario. Capacità di prendere sonorità elettroniche, sintetizzatori, tastiere e contaminarle con il mondo del jazz già dagli Anni Settanta.

Quando l’ho sentito suonare dal vivo per la prima volta, la cosa che più mi ha sconvolto è stati il suo tipo di sonorità, un  tipo di pianismo che è estremamente contemporaneo, potrebbe essere tranquillamente un ragazzo di trent’anni che suona il pianoforte meravigliosamente. Ha linguaggi che sono tipici del mondo moderno di oggi. A novant’anni rimane sempre curioso, aperto, estremamente orientato alla ricerca di nuove sonorità e capire come la musica può innovarsi ed evolversi. È questa la caratteristica che amo di più in un musicista.

Caratteristica che metti costantemente in pratica.

 “Mi è piaciuto collaborare con Willy Peyote, Malika Ayane, Paolo Fresu. Basta ascoltare la loro musica per capire che, pur essendo affermati nei propri ambiti, hanno una curiosità sconfinata. Artisti che hanno la visione della musica come unica arte a trecentosessanta gradi. Quello che cerco anch’io, ogni giorno. Ascolto, sperimento, contamino.

Il riconoscimento che mi è stato dato da Forbes per l’innovazione, credo sia stato dato per l’abbattimento delle barriere nella musica, tra i generi musicali. Così come stanno cadendo molte barriere nella vita, nella società di oggi, penso che questo debba avvenire anche nella musica, che è uno specchio della società.”

Altri progetti futuri?

“Dal 2026 tornerò a suonare all’estero. Il 10 gennaio suonerò alla Steinway Hall di Dubai che è una sala da concerto meravigliosa, con il miglior pianoforte al mondo, il Gran coda Steinway & Sons, poi sarò ad Amburgo, Colonia e Parigi. Stiamo anche organizzando di tornare a suonare a New York. Nel frattempo, lavoro al mio quarto album, la cui uscita è prevista per aprile 2026.”

Un giovane artista che pensa la musica non vada solo suonata, ma anche raccontata, per avvicinare e incuriosire ancora più persone. La stessa curiosità e lo stesso stupore che l’hanno travolto, scoprendo come i mostri sacri del jazz abbiano contaminato la loro musica con generi diversi. Non male per un ragazzo di soli ventidue anni.

Autore
Panorama

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