La corsia invisibile: viaggio nella sanità pubblica italiana tra attese infinite e mani criminali

  • Postato il 17 giugno 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

C’è un’Italia che soffre in silenzio. Non è quella delle manifestazioni, delle interviste patinate o dei talk show urlati. È l’Italia dei malati che aspettano. Dei pazienti in fila davanti agli sportelli delle ASL, delle persone che si svegliano all’alba per prenotare una visita, solo per sentirsi dire che “non ci sono posti fino al 2026”. È l’Italia che scopre di avere un tumore, ma anche che la prima TAC è disponibile tra sei mesi. L’Italia che, per sopravvivere, deve pagare. O aspettare. O conoscere qualcuno.

La sanità pubblica italiana, un tempo vanto della nostra Repubblica, è oggi allo stremo. Lo dicono i numeri, ma soprattutto lo raccontano le vite interrotte, i corpi trascurati, le diagnosi arrivate troppo tardi. Ogni anno, milioni di cittadini rinunciano a curarsi perché i tempi di attesa sono incompatibili con la gravità del loro stato di salute. Un’infiammazione cronica, un controllo cardiologico, una risonanza magnetica: tutto può trasformarsi in un’odissea. E quando si tratta di oncologia, neurologia, endocrinologia, il tempo non è solo prezioso: è tutto.

Dietro ogni lista d’attesa c’è una tragedia potenziale. Dietro ogni appuntamento rimandato, un’ansia che cresce, una malattia che avanza, una speranza che si affievolisce. Ma non si tratta solo di inefficienza. Non è solo colpa della carenza di personale, dei tagli alla spesa pubblica, della mancanza di medici di base o dell’imbuto formativo che schiaccia intere generazioni di futuri camici bianchi. Il problema è sistemico. Ed è anche criminale.

La gestione delle liste d’attesa in molte regioni italiane ha assunto i contorni di un business sommerso, un mercato parallelo dove le cure si comprano sotto banco, dove l’accesso alle visite è filtrato da favoritismi, raccomandazioni, e – peggio ancora – dalla longa manus delle mafie. È qui che il diritto alla salute viene negoziato. E barattato.

Le organizzazioni criminali non si limitano più al traffico di droga o al pizzo. Hanno imparato a infiltrarsi nei gangli della sanità. Controllano appalti, servizi, cooperative, forniture mediche. Ma oggi fanno di più: intervengono nella vita quotidiana degli ospedali, influenzano i tempi, decidono chi passa prima e chi resta indietro. In cambio di cosa? Di voti, denaro, fedeltà. O semplicemente del perpetuarsi del loro potere.

In alcune aree del Sud Italia – ma ormai anche in diverse città del Nord – il malato è un cliente, e chi media tra il bisogno e la prestazione sanitaria è un intermediario grigio, una figura opaca che si muove tra il personale sanitario, le segreterie, i dirigenti. La “mazzetta per passare avanti” è diventata quasi un’istituzione. C’è chi offre anche un servizio “premium” per accorciare i tempi: una tangente, un favore, un “aiutino” per ottenere ciò che dovrebbe essere garantito per Costituzione.

E intanto la politica finge di non vedere. Si annunciano investimenti, riforme, digitalizzazioni. Ma i piani non servono se non vengono accompagnati da un controllo reale sul territorio, da assunzioni trasparenti, da una presa di coscienza collettiva. L’autonomia differenziata, se approvata senza garanzie unitarie, rischia di aggravare ulteriormente il divario. Mentre in Lombardia c’è chi può fare una risonanza in 24 ore, in Calabria si può aspettare anche un anno. Un’Italia a due, tre, mille velocità. Dove il corpo diventa un indicatore di classe, di residenza, di censo.

Non va meglio nei Pronto Soccorso, dove i medici si ritrovano a gestire il collasso di un sistema senza risorse. Le barelle si accumulano nei corridoi, i codici verdi diventano gialli per disperazione, e chi potrebbe essere curato in ambulatorio finisce in ospedale per mancanza di alternative. Intanto i medici si dimettono, gli infermieri emigrano, i giovani si rifiutano di entrare in un sistema che li brucia prima ancora di formarli. La medicina di prossimità, tanto decantata, resta una chimera. Le Case della Salute sono spesso scatole vuote. I fondi del PNRR rischiano di trasformarsi in ennesima occasione mancata.

A farne le spese sono sempre i più fragili. Gli anziani soli, le famiglie con redditi bassi, chi vive nelle aree interne. Per loro, curarsi diventa un lusso. E chi non può permetterselo, semplicemente si spegne. In silenzio. Con dignità. Ma anche con rabbia.

Perché non può essere normale dover scegliere tra la spesa e la fisioterapia. Tra le bollette e una visita dermatologica. Tra la sopravvivenza economica e quella biologica. Eppure, per milioni di italiani questa è la realtà quotidiana. In una società che si definisce “civile” e “avanzata”, siamo tornati all’epoca in cui si sopravviveva grazie alla beneficenza. Solo che oggi, al posto delle suore della carità, ci sono intermediari mafiosi, corrotti e politicanti da corridoio.

La sanità privata, intanto, ringrazia. In molte regioni, le liste d’attesa pubbliche sono diventate il miglior spot pubblicitario per le cliniche private convenzionate, che spesso sono gestite dagli stessi gruppi imprenditoriali che beneficiano del caos pubblico. Una mano lava l’altra. E chi può pagare, lo fa. Ma questo crea un doppio binario: chi ha soldi, si cura; chi non li ha, aspetta. O muore.

Il diritto alla salute non dovrebbe essere oggetto di scambio, di profitto o di compromesso. È un diritto fondamentale, universale, costituzionale. Ma in Italia, oggi, è sempre più spesso una finzione normativa, una frase da pronunciare nei convegni e da ignorare nella pratica.

La soluzione? Serve una rivoluzione culturale. Serve una presa di coscienza collettiva. Servono medici e cittadini che denuncino, che non accettino più il “sistema”, che rifiutino la logica dello scambio. Serve una politica che abbia il coraggio di smantellare i comitati d’affari, di investire realmente nel personale, di premiare il merito e non l’appartenenza. Serve una magistratura libera, incisiva, protetta. Ma soprattutto serve un popolo che non accetti più l’attesa come forma di sottomissione.

Le corsie d’ospedale dovrebbero essere luoghi di cura, non trincee. Gli ambulatori, spazi di accoglienza, non sportelli del dolore. I medici, testimoni di umanità, non burocrati in camice bianco. E invece, sempre più spesso, il volto della sanità italiana è quello di una paziente sola, seduta su una sedia di plastica, con in mano un foglio che dice “Visita prevista: 14 maggio 2026”.

È lì che abbiamo perso la bussola. È da lì che dobbiamo ripartire. Non con nuove leggi, ma con una nuova coscienza. Perché la sanità non è un favore. È un diritto. E come tale va difeso. Con coraggio. Con rabbia. E con amore.

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