La giravolta di Serrachiani & Co. Quando il Pd chiedeva la separazione delle carriere
- Postato il 19 settembre 2025
- Di Il Foglio
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La giravolta di Serrachiani & Co. Quando il Pd chiedeva la separazione delle carriere
Cinque anni fa, quando Maurizio Martina correva per la segreteria del Pd, nel suo programma c’era scritto nero su bianco: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. A sottoscrivere quella mozione non furono esponenti di destra, ma una lunga lista di dirigenti democratici che oggi siedono ancora in Parlamento: Alessandro Alfieri, Mauro Berruto, Graziano Delrio, Vincenzo De Luca, Andrea De Maria, Lorenzo Guerini, Simona Malpezzi, Matteo Mauri, Matteo Orfini, Valeria Valente, Dario Parrini, Francesco Verducci e Debora Serracchiani, che non è un nome qualsiasi: oggi è la responsabile giustizia della segreteria del Pd.
Eppure, ieri a Montecitorio, la scena è stata un’altra. Con 243 voti a favore e 109 contrari, la Camera ha approvato in terza lettura la riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Un passaggio decisivo, prima dell’ultima fermata in Senato. Ma l’Aula si è trasformata in un’arena. Dai banchi del Pd, Chiara Braga ha urlato verso il governo: “Non si applaude, rispondete su Gaza!”. Carlo Nordio, il ministro della Giustizia, ha replicato che “annacquare la sconfitta con una diversione non servirà a nessuno”.
Gli applausi della maggioranza al voto finale hanno fatto esplodere la bagarre. Deputati in piedi, cori di protesta, scambi di accuse. La riforma, che in teoria dovrebbe parlare di terzietà del giudice, è diventata il campo di battaglia di una politica incapace di separare i temi. Così la discussione di merito si è persa in mezzo al rumore, mentre il dato politico resta: la riforma che il Pd voleva nel 2019 è stata approvata dal centrodestra nel 2025.
È qui che il paradosso diventa lampante. Oggi i dem combattono la riforma come fosse una forzatura autoritaria. Ma a firmare quella mozione nel 2019 c’erano, oltre a Martina, figure come Delrio, Guerini, Malpezzi, Verducci e Serracchiani. Non solo: Serracchiani, che allora sottoscriveva l’idea della separazione delle carriere, oggi guida proprio il dipartimento giustizia del Pd e combatte la riforma come un attentato allo stato di diritto. Cinque anni non sono un’eternità, eppure la linea del partito sembra ribaltata. La coerenza, in politica, è merce rara.
Se ieri in Aula si sono viste urla, accuse e un pezzo di opposizione impegnato a spostare la contesa sul terreno internazionale, il dato di fondo rimane intatto: il tema della giustizia divide, ma non lungo le linee nette che i partiti vogliono mostrare. La riforma passa, tra le proteste, con i numeri della maggioranza. Toccherà ora al Senato mettere il sigillo finale.
Intanto resta sul tavolo una domanda inevitabile: perché ciò che cinque anni fa sembrava “ineludibile” per tanti dirigenti Pd oggi viene bollato come un attentato alla Costituzione? Le urla di ieri a Montecitorio non hanno dato risposta.
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