“La lite in sala operatoria? Lì si combatte per la vita, se percepisco un rischio per il paziente è mio dovere reagire”: il prof Sica rompe il silenzio dopo il diverbio con una collega durante un’operazione a Tor Vergata

  • Postato il 23 giugno 2025
  • Cronaca
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Una difesa del proprio operato, un’apologia della responsabilità assoluta del chirurgo di fronte al rischio, ma anche una scusa sincera per i “toni eccessivi”. Il professor Giuseppe Sica, docente ordinario di chirurgia, interviene pubblicamente con una lunga e dettagliata nota per fare chiarezza sul “diverbio acceso” avvenuto lo scorso 6 giugno in una sala operatoria del Policlinico di Tor Vergata a Roma, vicenda per la quale l’ospedale universitario ha aperto un’indagine interna. Sica, senza mezzi termini, rivendica la correttezza del suo comportamento sottolineando come in quei momenti l’unica cosa che conta davvero è la sicurezza del paziente.

Il professore descrive il contesto in cui è avvenuto l’episodio: “un intervento lungo, delicato, protrattosi per oltre cinque ore, che richiedeva altissima concentrazione e prontezza di riflessi”. Lui, come chirurgo capoequipe, operava attraverso una consolle robotica, strumento all’avanguardia che garantisce precisione millimetrica ma che richiede una sinergia perfetta con i colleghi assistenti presenti al tavolo operatorio. “La sala operatoria è un teatro: un atto unico, irripetibile. È il fronte dove si combatte davvero tra la vita e la morte”, sottolinea Sica. “In quei momenti, ogni secondo conta. La responsabilità è mia, totalmente mia. Anche se qualcuno inciampa, anche se qualcosa non funziona, anche se si avvicina il pericolo. E se percepisco un rischio concreto per il paziente, è mio dovere reagire. Sì, anche con fermezza. Sì, anche con durezza”. Il chirurgo invoca un principio giuridico preciso: “Il nostro ordinamento giuridico chiama questo comportamento ‘stato di necessità’ ed è un’esimente assoluta. In quei momenti, si fa ciò che serve per salvare una vita. Punto”.

Tuttavia, pur difendendo la sostanza della sua reazione, Sica riconosce l’eccesso nella forma: “Riconosco che i toni usati nei confronti di una collega assistente durante quell’intervento sono stati eccessivi e dettati da uno stato di forte tensione e stress emotivo”. “Per questo”, prosegue, “desidero esprimere pubblicamente le mie scuse sincere e personali alla collega coinvolta. Non era mia intenzione mancare di rispetto, ma reagire a una situazione che in quel momento ho percepito come potenzialmente critica per il buon esito dell’intervento”. Aggiunge inoltre un dettaglio importante: “Tengo a precisare che mi sono già scusato personalmente con la collega e con lei ho avuto un chiarimento franco e sereno. Il rispetto umano e professionale tra colleghi è per me un valore imprescindibile”.

La nota del professore si conclude con una riflessione più ampia sul mestiere del chirurgo e sulla percezione esterna: “Viviamo in un mondo che spesso sembra capovolto. Un mondo dove si giudica con superficialità ciò che non si conosce. Eppure, ci sono luoghi, come la sala operatoria, in cui non si può permettere né leggerezza né approssimazione”. E si mette nei panni del paziente: “Se fossi io su quel tavolo, vorrei che il chirurgo che mi opera facesse tutto il possibile per tenermi in vita. Anche urlando, se necessario. Non vorrei qualcuno che tace per paura della gogna mediatica o del politicamente corretto”. “Il mio mestiere non è spettacolo”, conclude. “È scienza, tecnica, istinto, sangue freddo. E, soprattutto, è responsabilità. Ed è proprio per senso di responsabilità che oggi prendo la parola”.

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Il Fatto Quotidiano

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