“La pirateria uccide il calcio”, viva la Serie A in Australia: c’è il vassallo De Siervo, vietato criticare i potenti del pallone
- Postato il 10 ottobre 2025
- Calcio
- Di Il Fatto Quotidiano
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Luigi De Siervo, proprio lui: l’avvocato, l’amministratore delegato della Lega calcio, al terzo mandato. Quello che “la pirateria uccide il football”. Quello che è nato a Firenze, patria di Dante e della lingua italiana, ma quando parla, è tutto un “device”, “boomers”, “millennials”. Quello che dal 1999 al 2014 lavorò in Rai nell’area commerciale e nel 2016 sbarcò nel calcio, ruolo ad di Infront Italia. Quello che lo inquadrano spesso le telecamere al Meazza, sciarpato e con lo sguardo rivolto all’insù, verso il monitor. Quello che ha il cuore che batte per l’Inter, ma questa non è una colpa (non è vietato ad un amministratore delegato del calcio avere una preferenza, ci mancherebbe). Quello che “la nostra tecnologia è al servizio dei contenuti per standardizzare il livello di immagine, siamo una lega all’avanguardia perché siamo i primi ad aver introdotto il Var, la Goal Line Technology e il fuorigioco semiautomatico”. Quello che, ovviamente, ha benedetto l’operazione-Perth per portare in Australia Milan-Como l’8 febbraio 2026 “perché dobbiamo rafforzare la Serie A e organizzare all’estero, seppur in via eccezionale, una partita, aiuta a sviluppare il nostro brand”. E se poi qualcuno, come il milanista Adrien Rabiot, critica la scelta di scendere in campo nella patria dei canguri, De Siervo replica a brutto muso: “Lui si scorda, come tutti i giocatori che guadagnano milioni di euro, che sono pagati per svolgere un’attività che è quella di giocare a calcio”.
La voce del padrone. Anche se poi lo stesso De Siervo è padrone fino a un certo punto, perché è un amministratore delegato e non il proprietario del calcio italiano. Ma nell’Italia del 2025, dove i potenti sono sempre più potenti e i ricchi continuano ad arricchirsi, mentre i salari sono sempre più depotenziati, gli “apicali”, tradotto i vertici aziendali, si comportano come i vassalli dell’epoca di Carlo Magno. Il sovrano prometteva loro grandi benefici, come il controllo su vaste porzioni di territorio – i cosiddetti feudi -, in cambio della loro assoluta fedeltà e di un appoggio politico-militare. La Lega calcio è il sovrano, De Siervo è il vassallo e i calciatori, in quanto pagati bene, devono accettare le condizioni. Vietato anche esprimere un parere perché De Siervo ti richiama all’ordine. E’ il neoliberismo, il trionfo delle autocrazie, bellezze. Sta facendo danni in tutto il globo terracqueo – in questo caso il copyright è meloniano -, ma chi si mette di traverso, o si limita ad esprimere un’opinione, è considerato un nemico e trattato con disprezzo.
Rabiot non è un servo della gleba. È un ricco proprietario terriero, anche lui, ma in cambio del money che guadagna, deve obbedire e combattere. Nessuno vuole paragonare il prode Rabiot a Che Guevara o a José Mujica, l’ex presidente uruguayano scomparso a maggio, ma anche un calciatore ricco ha il sacrosanto diritto di esprimere le sue opinioni. Il centrocampista francese ha detto una cosa che appare condivisibile: giocare una partita di Serie A in Australia è una sfida alla logica e al buon senso. Può essere giustificata solo da quel money che, evidentemente, è l’unica cosa che batte nel cuore del vassallo De Siervo. E allora ecco sbattuto in faccia, a Rabiot, il salario che guadagna: ti gonfi il portafoglio, quindi taci. Peccato però che sono quelli come Rabiot che giustificano lo stipendio di De Siervo. I giocatori sono gli attori principali dello show calcio. Senza i Rabiot, non c’è spettacolo. E se il carrozzone si ferma, sono guai per tutti. Anche per il vassallo De Siervo.
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