La resistenza poetica e oltre risuona a Epic

  • Postato il 27 luglio 2025
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La resistenza poetica e oltre risuona a Epic

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Massimo Barilla ci porta nel mondo della compagnia Mana Chuma Teatro tra Epic (Esperienze Performative di Impegno Civile) e resistenza poetica


Anche quest’anno ritorna EPIC (Esperienze Performative di Impegno Civile), la rassegna di Mana Chuma Teatro nell’ambito del progetto ReggioFest2025: cultura diffusa. Dal 29 luglio al 2 agosto Piazza del Popolo a Reggio Calabria ospiterà un ricco programma di concerti e spettacoli teatrali. Mana Chuma Teatro è una compagnia calabrese di teatro contemporaneo, diretta da Massimo Barilla e Salvatore Arena. Attiva nell’ambito della nuova drammaturgia e del teatro civile, ha ricevuto il Premio della Critica ANCT nel 2019.

Sin dalla sua fondazione, Mana Chuma ha scelto di esplorare l’identità culturale e storica del sud, intrecciando il recupero di storie, personaggi, stili e modelli della tradizione locale e mediterranea con linguaggi artistici contemporanei. Il risultato è una drammaturgia originale, basata sulla contaminazione tra forme espressive differenti, con una particolare attenzione alla ricerca spaziale e all’uso di luoghi “altri” per la rappresentazione teatrale.

Nel tempo, la compagnia ha ampliato i propri orizzonti, valorizzando le competenze interdisciplinari del suo nucleo artistico. I percorsi creativi integrano oggi musica, video, poesia, cinema, danza, tecnologie interattive e nuove forme di narrazione.
Abbiamo avuto l’occasione di conversare con Massimo Barilla, poeta, sceneggiatore e regista.

Parliamo di EPIC. Perché questa rassegna è sempre più importante?

«EPIC sta per Esperienza Performative di Impegno Civile ed è la declinazione dell’altra metà di Mana Chuma Teatro. Noi siamo riconosciuti sia dal ministero che dalla regione come impresa culturale e la nostra principale mansione è quella di realizzare delle produzioni artistiche multidisciplinari che sono sempre all’interno di questo ampio spettro dell’impegno civile declinato in varie forme. Questo aspetto, che ci porta a girare sia in Italia che all’estero, ha bisogno di un momento di restituzione sul territorio, non solo per i nostri spettacoli, ma anche come contenitore culturale per altri lavori e performance che sentiamo affini. Questa nostra ulteriore dimensione ci aiuta a calare delle proposte culturali in maniera puntuale rispetto alle location che si vanno a toccare di volta in volta. C’è una parte legata ai progetti di periferia, che, quindi, tocca le città di Reggio Calabria e di Messina, ed una parte più legata alle aree interne, come quella grecanica. Così, di volta in volta, questo progetto trova rispetto all’utenza uno sviluppo sostenibile che sta dietro un progetto culturale ben definito».

Torniamo alla prima metà adesso, cioè a Mana Chuma Teatro. Qual è la filosofia che c’è dietro?

«Oltre che come impresa culturale riconosciuta dal MIC in noi è connaturata totalmente l’idea di ricerca e di innovazione. Non è qualcosa che nasce a tavolino, ma fa parte del nostro essere, del nostro DNA, che cerchiamo di raccontare attraverso una drammaturgia che non è solo teatrale, ma assolutamente multidisciplinare. L’approccio antropologico e dello studio della storia e dell’identità per noi è basilare. La nostra visione del mondo è, quindi, quella di raccontare storie che possono interessare chiunque. Questa è una tradizione culturale che sentiamo molto nostra».

Parlando di questo quali sono i vostri riferimenti?

«Ovviamente sono molteplici, ma c’è sicuramente una importante impronta pasoliniana in quello che facciamo, non solo dal punto di vista dei contenuti ma dell’approccio. Pasolini intende la cultura come qualcosa che deve parlare a tutti, così noi pratichiamo questo tipo di intenzione sia nelle periferie urbane, sia con i vecchi di Bova. Noi crediamo che il teatro debba recupera quella funzione che un po’ ha perso negli ultimi 30-40 anni diventando troppo autoreferenziale, anche mantenendo un alto valore artistico spesso non è stato capace di toccare il mondo esterno, perdendo il suo senso che per noi è importante recuperare».

Veniamo allo spettacolo di Mana Chuma di quest’anno che è “Searching for Hamlet.” Come si sviluppa questa produzione?

«Questo spettacolo, “Searching for Hamlet” è quella che noi definiamo nuova drammaturgia, nel senso che oltre al teatro di impegno civile qui siamo su qualcosa che è ancora alla rilettura del classico e al lavoro dell’attore, questo intendiamo per nuova drammaturgia. Qui prendiamo spunto dalla materia shakespeariana ma la raccontiamo dalla parte degli ultimi, con la poetica degli ultimi. Lo stiamo facendo anche recentemente con l’Iliade raccontandolo non attraverso gli eroi classici, ma attraverso un troiano ed un acheo. Noi raccontiamo le storie dei margini. Tutta la dimensione raccontata è quella storia universale che tutti conosciamo ma diventa ancora una volta un’occasione per narrare il dramma della guerra, tema sempre più contemporaneo, da un punto di vista differente. In Searching for Hamlet noi troviamo tre reduci di una compagnia shakespeariana che in seguito alla distruzione di un teatro a causa di un incendio, cercano di reinventarsi come saltimbanchi. Stanchi di questa vita, però, arriva il momento di voler tentare l’impresa, cioè, rimettere in scena l’Amleto. Questo innesca dei meccanismi a specchio molto interessanti e soprattutto segue quella linea del teatro che deve sapere parlare a tutti».

Che cos’è il teatro per te?

«Per me si tratta di una forma di possibili immedesimazioni in storie che sono universali, che riguardano qualsiasi essere umano. La nostra responsabilità di artisti, quindi, è quella si raccontare e raccontarsi attraverso un medium che questa capacità la contiene. Io sono convinto poi che tutta l’arte abbiamo questa responsabilità e possibilità, come la poesia ad esempio»

All’interno di EPIC c’è, infatti, anche uno spazio di resistenza poetica. Di che si tratta?

«Noi siamo un gruppo multidisciplinare e quindi parliamo con vari linguaggi, anche con la musica, ad esempio, ci sarà un viaggio musico-sensoriale firmato da un maestro come Luigi Polimeni. Poi avremo degli spazi di poesia performativa, ci teniamo molto perché si tratta di una tradizione antichissima, penso agli aedi e ai cantastorie. Si tratta di un patrimonio del Mediterraneo e dell’Africa, con la quale ci confrontiamo molto. La poesia per noi deve essere condivisa con la drammaturgia e sono felice che ci saranno anche queste reading con Elizabeth Grech, che è tradotta in cinque lingue. Attraverso la parola poetica noi puntiamo a far riemergere delle tematiche importanti. Inoltre, io sono convinto che poesia e drammaturgia siano più unite e sovrapposte di quanto si possa intendere, sono presenti l’una dentro l’altra».

Tu sei convinto che la bellezza possa aiutare il mondo?

«La bellezza è certamente un’ancora di salvezza, al di là che posso salvare il mondo, è un’ancora necessaria, è un qualcosa che da cui dobbiamo tutti ripartire, ma non in un senso estetico, in un senso etico. Io credo che, se anche questa terra ha una speranza di cambiamento, lo può fare se ci si riconosce a vicenda in un in una volontà di rendere la bellezza un motore di cambiamento. Credo che sia un qualcosa che deve essere anche contagiosa».

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