La rete sommersa del jihadismo australiano: predicatori, reclutatori e terroristi tornati liberi

  • Postato il 16 dicembre 2025
  • Di Panorama
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Per oltre vent’anni Wisam Haddad è rimasto al centro dell’attenzione dei servizi di sicurezza australiani senza che nei suoi confronti sia mai stata formalizzata un’accusa di terrorismo. Un’anomalia che oggi pesa come un atto d’accusa implicito contro l’inerzia dello Stato. Predicatore radicale di Sydney, noto anche come Abu Ousayd, William Haddad o Wissam Haddad, è stato indicato da un’inchiesta di Four Corners (ABC) come il leader spirituale di una rete pro-ISIS attiva sul territorio australiano, capace di attrarre, formare e rimettere in circolazione militanti già condannati per reati di terrorismo. Haddad non promuove alcun progetto politico nazionale. Rifiuta il concetto stesso di Stato, liquida il nazionalismo come un’eresia e predica una visione intransigente della Sharia inscritta in un orizzonte di jihad globale. È proprio questa impostazione a renderlo un punto di riferimento per soggetti radicalizzati, spesso giovani, vulnerabili e facilmente manipolabili. Secondo l’ABC, attorno ai suoi centri di preghiera e alle sue attività di predicazione si è sviluppato negli anni un ecosistema ideologico che ha favorito il passaggio dalla radicalizzazione dottrinale al reclutamento operativo.

Uno dei nomi centrali di questa galassia è Youssef Uweinat, 27 anni, già condannato come reclutatore dell’ISIS. Conosciuto anche come Abu Musa al-Maqdisi, Uweinat aveva adescato e incoraggiato minorenni australiani a compiere atti violenti, trascinandoli in chat criptate e sommergendoli di propaganda jihadista. Nei fascicoli giudiziari emergono messaggi espliciti, immagini di decapitazioni, video di addestramento armato e appelli al martirio. Arrestato nel 2019, ha scontato quasi quattro anni di carcere dopo che un giudice aveva riconosciuto una presunta «genuina contrizione» e ridotto la pena. La magistratura aveva tuttavia messo nero su bianco un avvertimento: il rischio di recidiva sarebbe aumentato in caso di riavvicinamento alla vecchia rete. Nonostante ciò, alla sua liberazione nel 2023 non è stato imposto alcun ordine di sorveglianza stringente. Un tribunale ha respinto la richiesta del governo federale di sottoporlo a controlli approfonditi su movimenti, comunicazioni e frequentazioni. Secondo l’inchiesta, poche settimane dopo il rilascio Uweinat avrebbe riallacciato i rapporti con Haddad, tornando a gravitare nel suo ambiente ideologico e relazionale.

Uweinat faceva parte di una cellula dell’ISIS infiltrata da una fonte dell’ASIO, l’agenzia di intelligence australiana. L’agente sotto copertura ha raccontato come i membri del gruppo pianificassero attacchi, producessero propaganda e mantenessero contatti con jihadisti all’estero. In messaggi intercettati, Uweinat ammetteva che tutti erano «collegati ad Abu Ousayd», rafforzando il sospetto di un legame strutturale e duraturo tra il predicatore e i militanti operativi. Un altro tassello della rete è Joseph Saadieh, 28 anni, ex leader giovanile dell’Al Madina Dawah Centre e parte della stessa cellula. Arrestato nel 2021, sui suoi dispositivi furono trovate istruzioni per la fabbricazione di ordigni improvvisati e cinture esplosive. Il procedimento per appartenenza all’ISIS è stato ridimensionato dopo un patteggiamento per un reato minore di supporto all’organizzazione. Condannato a 12 mesi, è stato rilasciato immediatamente, avendo già superato la pena con la custodia cautelare e le rigide condizioni di libertà su cauzione. Anche in questo caso, nessun percorso strutturato di deradicalizzazione. L’inchiesta segnala inoltre il ritorno in circolazione di figure storiche del jihadismo australiano, tra cui Abdul Nacer Benbrika, condannato a 18 anni per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, indicato come presunto leader di una cellula dell’ISIS a Sydney negli anni passati. La ricomposizione di questi legami suggerisce un tentativo di rilancio della rete, sfruttando soggetti formalmente liberi ma ideologicamente irrisolti. Questo quadro si inserisce in un fenomeno ben più ampio. Secondo le stime ufficiali delle agenzie di sicurezza australiane, tra il 2011 e il 2019 circa 220–230 cittadini australiani sono partiti per Siria e Iraq come foreign fighters, un numero elevato in rapporto alla popolazione del Paese. Di questi, circa 100 sono morti nei combattimenti, circa 40 sono rientrati in Australia e decine risultano ancora all’estero, spesso in aree instabili o in campi di detenzione. Un bacino che continua a rappresentare un rischio, soprattutto quando i rientri non sono accompagnati da misure di controllo e disimpegno efficaci.

L’ASIO ha avvertito che l’ISIS ha recuperato capacità operative e slancio internazionale, facendo salire il rischio di attentati a un livello definito «probabile». A fronte di questo scenario, il dato che più colpisce è la distanza tra l’allarme lanciato dalle agenzie e la capacità dello Stato di neutralizzare i nodi ideologici interni. Haddad resta libero di predicare, mentre attorno a lui si muovono ex detenuti per terrorismo tornati nella comunità senza vincoli stringenti. Il caso australiano pone una questione di fondo: quanto a lungo è sostenibile una strategia che si limita a monitorare, senza smantellare, le infrastrutture ideologiche del jihadismo domestico? La sequenza di nomi – da Uweinat a Saadieh, fino a precedenti come Isaac El Matari, condannato a sette anni per la preparazione di un attentato – indica che la minaccia non nasce nel vuoto, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale.

Autore
Panorama

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