La scialba telenovela del potere russo con Putin/Jude Law non convince: la recensione de Il Mago del Cremlino

  • Postato il 31 agosto 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Da Michel Debré a Zhou Enlai, da Alberto Beneduce a Rasputin, Machiavelli, Kissinger. Di uomini nell’ombra, consiglieri, suggeritori, strateghi dei grandi tiranni della storia ce ne sono stati a decine. Vladimir Putin di queste figure ne ha avute a corte, risucchiate e perfino eliminate, diverse; anche se quella più importante rimane Vladislav Surkov. Perenne giovanotto dalle gonfie gote che da regista teatrale d’avanguardia in piena trasformazione dell’URSS post ’89, sulla scia di frequentazioni altolocate diventò subito direttore televisivo, deputato, ministro, capo dello staff per nove anni e assistente personale per altri nove dello Zar Vlad.

Un’eminenza grigia di tutto rispetto che in Il mago del Cremlino, film in Concorso a Venezia 2025 diretto dal francese Olivier Assayas, a sua volta tratto dal romanzo di Giuliano Da Empoli, diventa l’impalpabile Vadim Baranov con il faccione di Paul Dano. La lunga introduzione serve a capire che dalle parti di Baranov/Surkov passa il nostro recente passato, l’intero presente e una fetta bella ampia di futuro. Eppure a seguire il film di Assayas sembra di stare ad assistere una sommaria scialba telenovela di stato, dove più che il potere poté l’“amore”, e dove la politica, anche quella che giustifica sultanati antidemocratici con morti e guerre, è frutto di un arguto quanto improvvisato storytelling. Surkov, ad esempio, per giustificare e protrarre la permanenza di Putin al vertice dello stato russo per oltre 25 anni inventò il concetto di “democrazia sovrana”, una sorta di intrigante ossimoro a cui hanno attinto, paradossalmente, anche molte nazioni occidentali nel recente passato.

Il mago del Cremlino prende le mosse dall’arrivo di uno scrittore statunitense a Mosca (Jeffrey Wright), patito per un romanziere antiputiniano e che si ritrova in contatto proprio con Baranov che cita questo autore sui social con grande disinvoltura. Baranov invita così l’americano nella sua villa in mezzo alla neve in cui si è ritirato da alcuni anni. E da lì, comodamente sul divano, tra un caffè e una portata del pranzo, Baranov riassume trent’anni segreti di storia russa: dal traballante ed etilico trapasso di Yeltsin alla improvvisa ascesa di Putin, passando dalla rapidissima ascesa e all’altrettanto rapido declino della trasformazione criminale dell’economia di stato con l’affermazione dei cosiddetti oligarchi, seguendola all’incirca fino al 2020 (no, di guerra in Ucraina non si parla ma di Crimea e piazza Maidan sì).

Sono proprio Baranov e l’oligarca Berezovsky, grazie al baldanzoso e culturalmente occidentalissimo primo canale di stato, a chiedere a Putin, nel 1999 direttore dei servizi segreti russi, di farsi nominare primo ministro dall’oramai nullo Yelstin e continuare successivamente l’ascesa alla presidenza. “Dopo il caos c’è bisogno di ordine”, dicono i due novelli Machiavelli. A spuntarla sarà però il più giovane Baranov che accompagnerà Putin sempre più da vicino nei successivi 21 anni, mentre Berezovsky finirà impiccato in esilio nella sua casa inglese nel 2013. Assayas puntella faticosamente la lunghissima cavalcata nei presunti retroscena storici del Cremlino attraverso eventi spesso tragici (il Kursk, il Donbass, il terrorismo ceceno) come da apici di visibilità pubblica (le olimpiadi di Sochi, la presenza al fronte coi soldati, l’intervista di Putin concessa a Larry King) con l’impressione che la quantità più che chiarire stordisca; nonchè irrorando carsicamente la trama con l’anonimo subplot sentimentale di Baranov che per tutta la vita ha avuto un punto debole: l’amore per la bella sfuggente attrice Ksenia (Alicia Vikander).

Insomma, nell’aria si respira tanta ingiustificabile caotica sciatteria, ricette facili all’occidentale per spiegare strategie politiche complesse (si guardi come viene rappattumato il momento in cui Baranov avvicina gruppi di estrema sinistra e estrema destra nonché fazioni religiose ortodosse come nuovo aggregato del consenso putiniano), nonché una direzione d’attori approssimativa con Law/Putin che ondeggia disgraziatamente tra l’Al Capone di De Niro e il Frank Underwood di Spacey. Assayas ha scoperto il romanzo italiano perché l’autore era suo vicino di casa in Toscana. Emmanuel Carrère, che co-sceneggia (coi piedi, forse?) il film, appare seduto su un lavandino ad una festa punk nei primi anni novanta.

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