La sinistra e il clima d'odio: Calabresi e Tobagi sbagliano
- Postato il 17 settembre 2025
- Politica
- Di Libero Quotidiano
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La sinistra e il clima d'odio: Calabresi e Tobagi sbagliano
Premessa doverosa, di sostanza e non solo di stile. Questo è un articolo in netto e direi radicale dissenso dai commenti di Mario Calabresi e Benedetta Tobagi pubblicati ieri rispettivamente da Repubblica e dalla Stampa. E tuttavia direbbero i britannici - vorrei “gracefully disagree”, cioè dissentire con grazia, senza polemiche scomposte e totalmente inopportune. Calabresi e Tobagi, due firme del gruppo Gedi, sono com’è noto il figlio di Luigi e la figlia di Walter: il commissario che fu ucciso nel maggio del 1972 da un commando di Lotta Continua, e il giornalista del Corriere che fu assassinato nel maggio del 1980 dai terroristi di sinistra della cosiddetta Brigata XXVIII marzo.
I loro figli- ieri mattina- hanno reagito alle parole provenienti dal centrodestra (in particolare, è da presumere si riferissero alle esternazioni dei due giorni precedenti di Giorgia Meloni e Antonio Tajani), mostrandosi determinatissimi nel prendere le distanze da quelle dichiarazioni. E qui sta il mio primo motivo di radicale dissenso: non mi pare ci sia stato alcun uso politico, e meno che mai alcuna strumentalizzazione “da destra” della memoria di Calabresi e Tobagi. Semmai, ricordare l’isolamento del quale furono oggetto prima degli attentati che li colpirono è un modo di onorare fino in fondo la loro memoria, e anche di salvaguardare la tragica verità di quegli eventi italiani. Tobagi era un riformista convinto e- secondo innumerevoli testimonianze - fu ripetutamente attaccato e ostracizzato dalla parte comunista della redazione del Corriere di quel tempo, e anche da altri giornalisti collocati più a sinistra di lui. Fu isolato, fu a lungo considerato un uomo vicino a Craxi, senza dire di quanto fosse accurato il suo delicato e pericoloso lavoro di inchiesta sul terrorismo. Tutto questo gli valse una feroce campagna di odio anche in luoghi teoricamente insospettabili.
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Ora la figlia di Tobagi, forse un po’ frettolosamente (a onor del vero, infatti, il suo pezzo di ieri sulla Stampa è la trascrizione di un post su Facebook), sembra avere un’urgenza di polemica politica molto rivolta al presente: afferma che «l’estrema destra negli Usa e nel resto del mondo è in prima fila nell’alimentare un discorso pieno di odio, razzista, islamofobo, misogino». E ancora: sostiene che la condanna dell’omicidio di Charlie Kirk in Italia sia stata «a dir poco unanime» (ah sì? per informazioni, però, sarebbe meglio citofonare a Odifreddi e Saviano).
E infine spiega che in Italia «il tasso di omicidi per fortuna non è mai stato così basso». Ecco, un minore legame con il presente, oltre che un senso storico più profondo e meditato, suggerirebbero di ragionare sull’isolamento - allora come ora - creato intorno a certe figure: quell’isolamento, quell’essere additati come bersagli, facilitano il lavoro a chi ha avuto o avrà intenzione di premere un grilletto. Quanto al figlio di Calabresi, il suo pezzo di ieri può essere sintetizzato fedelmente con il titolo scelto in prima pagina da Repubblica: “Non usate mio padre”. E ancora, sulla stessa lunghezza d’onda, la sintesi contenuta nell’altro titolo all’interno del giornale, a pagina 12: “Un paragone fuori luogo: sbagliato sfruttare le vittime”.
Ma - anche qui - la reazione ci pare decisamente fuori bersaglio. Antonio Tajani, in particolare, era stato prudente e rispettoso proprio nell’evocare il clima che aveva condotto al delitto Calabresi, e che in buona misura lo aveva preparato. Ricordiamo bene i fatti. Nel giugno del 1971 fu pubblicato un appello francamente vergognoso contro Luigi Calabresi, presentato come un «commissario torturatore» nonché come il responsabile della fine di Pinelli. Prese slancio da lì una campagna di linciaggio morale che undici mesi dopo si sarebbe conclusa con l’assassinio del commissario. Rileggete le firme in calce a quell’appello: centinaia di nomi, i “migliori” del cinema, della letteratura, del giornalismo italiano di quegli anni. Da allora a oggi, si contano su poche dita di una sola mano coloro che hanno meritoriamente avvertito l’esigenza di scusarsi. E invece tanti di loro ancora pontificano su tutto.
Non è lesa maestà né tantomeno una strumentalizzazione ricordare che si tratta della stessa intellettualità che - dal 1969 al 1978 - coccolò il nascente terrorismo di sinistra, occultandone o offuscandone la matrice. «Le sedicenti Brigate rosse», si scriveva. Salvo poi, nei decenni successivi, raccontare a se stessi e agli altri che gli estremisti di sinistra erano isolati e marginalizzati nella società italiana. Falso: nelle redazioni italiane, nei salotti, negli ambienti intellettuali, nell’accademia, si respirava un’ambigua simpatia. Li svergognò tutti con un libro mirabile e memorabile (L’eskimo in redazione) Michele Brambilla: e quel libro andrebbe recuperato, riletto, ripubblicato.
Sono gli stessi che, nei momenti più delicati, toglievano il saluto a Indro Montanelli, salvo poi - una ventina d’anni dopo, al momento della rottura con Silvio Berlusconi - provare grossolanamente ad annetterselo. E adesso sono gli stessi che tuttora dominano il discorso pubblico in Italia. Qualcuno obietterà: ma non sono sempre gli stessi. Vero, in parte: l’anagrafe e il ricambio generazionale fanno sì che molti dei firmatari (e dei “firmatori” professionali) di appelli del passato abbiano trasmesso il testimone a nuove legioni di intellettuali e commentatori, di professori e direttori. Ma il dna politico-culturale è quello, i sorrisini di superiorità pure, e- ammoniva nuovamente Montanelli- una certa propensione a parteggiare per chi la violenza la pratica, mica per chi la subisce.
È per questo che - con garbo, con rispetto, ma anche con molta determinazione trovo fuori luogo gli interventi di ieri di Benedetta Tobagi e Mario Calabresi. È giusto, anzi sacrosanto, difendere la memoria dei loro papà, davanti ai quali ci inchiniamo: ma il modo migliore di farlo è non dimenticare - insieme agli assassini materiali - chi preparò il terreno scatenando campagne di odio e di isolamento ai danni delle vittime. Sono cambiate tante cose da allora, ma non quel metodo, troppo spesso praticato da sinistra verso il nemico del momento: distorcere, mostrificare, fascistizzare. Quella “tecnologia” e quel “format” sono in pieno uso anche oggi. Poi qualcun altro si incaricherà di colpire, come accadde in passato. Guai a chi dimentica: non c’è futuro senza memoria.
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