La Triade: Prato e l’impero invisibile della mafia cinese

  • Postato il 10 maggio 2025
  • Di Panorama
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Via Calabria, via Piemonte e via Liguria un tempo erano l’epicentro del «pronto moda» cinese in Europa. Ora su quegli stradoni dell’area industriale di Prato sembra esserci un coperchio di piombo. Non ci sono più le corse dei furgoni carichi di merce, nessun lavoratore con le mani segnate dalle cuciture. Solo vetri rotti, insegne sbiadite in caratteri cinesi e capannoni fantasma. Eppure, dietro questa calma irreale, cova una guerra.

«La guerra delle grucce», l’ha ribattezzata in modo sbrigativo la stampa locale, perché gli affari che stanno più in superficie riguardano gli appendiabiti triangolari in metallo da pochi centesimi a pezzo. Ma è qualcosa di più. È un terremoto nella potentissima mafia cinese, la Triade, un’organizzazione antica, una società segreta che risale ai tempi della resistenza Ming nel XVII secolo. Il boom del fast fashion aveva steso un velo sopra tutto: sopra le vecchie faide, sopra gli odi importati dalla Cina profonda. Tanto denaro, così tanto che i clan delle regioni dello Zhejiang e quelli del Fujian avevano smesso di scannarsi. Avevano stretto una pax mafiosa fatta di accordi non scritti e di territori divisi, come gli involtini primavera su una tavolata. Ma ora che la crisi ha prosciugato il fiume di denaro, il velo si è strappato. E sotto si rivede la faccia feroce della lotta per il potere.

A reggere quel sistema, stando alle accuse mosse dalla Procura antimafia di Firenze, c’era un nome che fa ancora tremare: Zhang Naizhong, «il boss dei boss». Uomo dello Zhejiang, terra di gente dura e ingegnosa, aveva costruito il suo dominio come una cattedrale invisibile: mattone dopo mattone, affare dopo affare. Accanto a lui, a far da garante dell’equilibrio con il Fujian aveva messo Lin Guochun, il vice scelto forse soltanto per necessità politica. Il loro regno sembra fondato su due colonne portanti: Europatrans e Anda, le società che movimentavano merci da una sponda all’altra del mondo, senza clamore ma con la precisione di un orologio svizzero. Ora quel regno scricchiola. Meno merci, meno soldi, più controlli, e i clan hanno ripreso a fronteggiarsi.

A Prato si moltiplicano i pestaggi fuori dai ristoranti, gli incendi dei negozi e degli opifici, le minacce lasciate come biglietti da visita nelle mani tremanti dei trasportatori indecisi. Gli agguati. E gli omicidi. Il Number One, un night club frequentato soprattutto da asiatici, sembra essersi trasformato in un poligono. Nel luglio dello scorso anno un commando di sei persone cerca di uccidere Chang Meng Zhang, un imprenditore cinese del mercato delle grucce, con una condanna sulle spalle per l’omicidio di un connazionale. Tra i sicari c’è Nengyin Fang, ex militare dell’esercito cinese giunto in Italia proprio per eliminare Zhang. Gli investigatori l’hanno rintracciato a Padova. Altri quattro complici si sono nascosti in Calabria. Uno a Catania, snodo fondamentale per la logistica della Triade in Italia. Qui i cronisti locali ricordano ancora la ferocia con la quale fu assassinato Ren Jinxing, proprietario di un ingrosso di abbigliamento ad Agrigento e crivellato di colpi a Catania nel 2004.

I quattro killer individuati provenivano dalle comunità cinesi di Prato e di San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli, altra città strategica nello scacchiere della mala del dragone. Solo pochi giorni fa, invece, nello stesso locale di Prato, è toccato a una donna, sempre cinese, dipendente del Number One, sequestrata a scopo di estorsione. E 24 ore dopo un altro cinese finisce al Pronto soccorso con due proiettili nella spalla e in un braccio. La scena del crimine è ancora una volta in Number One. Sono 15 gli episodi violenti dallo scorso giugno. E inquietanti coincidenze portano gli inquirenti anche all’incendio di un capannone a Madrid e a un duplice omicidio a Roma. Nel quartiere Pigneto. Qui un killer ha aspettato le vittime sul pianerottolo, conoscendo indirizzo e orari. L’agguato sembra essere stato studiato nei dettagli – ed eseguito – con freddezza: sei colpi di pistola, due alla testa. Per gli investigatori si tratta di un’esecuzione mafiosa di matrice cinese. Le vittime sono Zhang Dayong, già imputato per tentata estorsione nel processo in cui è coinvolto Naizhong (del quale, a leggere gli atti giudiziari, la vittima sarebbe stata uno dei luogotenenti), e sua moglie Gong Xiaoqing, con un precedente per gioco d’azzardo. Gli inquirenti italiani, che appaiono disorientati in un labirinto fatto di silenzio, per ora raccolgono i cocci.

Immaginano che la guerra, quella vera, sia alle porte. Ma Prato è solo un frammento. Per capire da dove arriva il veleno, infatti, bisogna andare a sud, ai piedi del Vesuvio, nel ventre scuro di San Giuseppe Vesuviano. Qui, molto prima che il sistema di Prato esplodesse, il sangue era già stato versato. Bisogna risalire al maggio 2006: nella quiete ingannevole di Villa Paradiso, un ristorante-albergo gestito da una giovane cinese, la violenza esplose come una bomba. Un gruppo armato fece irruzione, torturò quattro ragazzi cinesi venuti, coincidenza, da Prato. Uno di loro, Zhi Jian Su, straziato dai colpi di mannaia, non uscì vivo da quella notte. Gli altri finirono in ospedale, tra la vita e la morte. I carabinieri scavarono tra omertà e mezze parole, ma si scontrarono con il muro di granito della comunità cinese: dove i conti si regolano all’interno.
Non era un episodio isolato. Gli inquirenti ricostruirono l’omicidio: era stato ordinato da Naizhong «nell’ambito della lotta per la supremazia tra ditte di trasporti cinesi». Il boss, però, fu condannato solo per aver fornito agli assassini i mezzi per fuggire dall’Italia. E solo in primo grado. Fu assolto dalla Corte d’assise d’appello di Napoli. Il filo di sangue, però, portava lontano, oltre le Alpi, fino a Parigi, dove l’invisibilità è arte e mestiere. Nel gennaio 2010 la polizia francese arrestò un «fantasma»: Feng Lin, 27 anni, più soprannomi che anni vissuti. Lo bloccarono mentre usciva dal suo appartamento nel X arrondissement, tra le viuzze dense di lingue straniere.

Lin aveva scelto Parigi perché nella Chinatown di Belleville i clan si confondono tra ristoranti, money transfer e mercati notturni. Si è poi scoperto che aveva potuto contare sull’aiuto economico di persone risultate in contatto diretto col gruppo di Naizhong. E sempre a Parigi, città tornata rovente per i quotidiani attentati a firma cinese, fu ucciso l’unico pentito della Triade che aveva osato vuotare il sacco in Italia. Zhang Zhen aveva svelato tutti i meccanismi oscuri della criminalità cinese radicata in Toscana: le rotte dei clandestini, i racket, i sequestri, gli stupri, gli omicidi. Era stato il collaboratore chiave dell’inchiesta «Gladioli rossi» (i fiori inviati come messaggi di morte a chi sgarrava), la prima che, nel 1999, aveva portato un tribunale italiano a riconoscere l’esistenza di un’organizzazione mafiosa cinese operante in Italia. Quindici condanne, tutte confermate in Cassazione. Zhen, arrivato in Toscana nel 1991, era un «soldato» dei clan: esattore di debiti di gioco, trasportatore di clandestini, trafficante d’armi. Era entrato nel radar della giustizia dopo una sparatoria a Sesto Fiorentino. Un operaio cinese, ex poliziotto nel suo Paese, gli aveva sparato per primo. E lui aveva chiesto protezione. Ma non se ne fece nulla. Così aveva provato a ricostruirsi una vita tra Pisa e Parigi. Poi, la fine. Il 3 novembre 2001, Zhen fu trovato morto nel suo appartamento parigino, freddato da un colpo di pistola.

Un’esecuzione chirurgica. Un messaggio a tutti gli altri: chi tradisce la Triade, non ha scampo. Ma tutto torna a Prato. Sempre lì. Come un polmone che continua a pompare veleno in tutt’Europa. Fu Giuseppe Creazzo, da procuratore di Firenze, a dirlo in modo chiaro dopo gli arresti dell’inchiesta «China Truck»: «Da Prato partono le ramificazioni verso l’intero continente». Ora lo conferma il procuratore di Prato Luca Tescaroli. Non solo capannoni e vestiti, ma droga, estorsioni, traffico di esseri umani. Naizhong era sospettato di essere il vertice invisibile di questo sistema. Non era solo un boss: era un diplomatico criminale. Mentre in Italia, come svelò Panorama nel 2018, organizzava le visite dei pezzi grossi del suo Paese con gli ignari esponenti del governo italiano, quando le bande di Parigi si scannarono, fu lui, secondo gli inquirenti, a volare in Francia, a sedersi tra i capi delle Triadi, facendo pesare la sua autorità. Prima di entrare nella sala delle trattative, intercettato, disse ai suoi uomini: «Davanti a tutti, dovete chiamarmi “capo”». E da quel summit uscì un nuovo ordine delle cose: ogni affare sarebbe passata da lui, da Prato.

Autore
Panorama

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