L'alluminio nei vaccini pediatrici non aumenta il rischio di disturbi. Lo studio
- Postato il 18 luglio 2025
- Di Il Foglio
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L'alluminio nei vaccini pediatrici non aumenta il rischio di disturbi. Lo studio
Lo studio “AluminumAdsorbed Vaccines and Chronic Diseases in Childhood: A Nationwide Cohort Study”, recentemente pubblicato sugli Annals of Internal Medicine il 15 luglio 2025, ha analizzato in modo rigoroso se l’esposizione ai sali di alluminio, utilizzati da decenni come adiuvanti nei vaccini inattivati somministrati ai bambini, sia associata a un aumento del rischio di disturbi cronici in età pediatrica.
Questo lavoro di coorte, condotto dai ricercatori dello Statens Serum Institut di Copenaghen, ha esaminato 1.224.176 bambini nati in Danimarca tra il 1997 e il 2018 – quindi su un periodo di ben 24 anni. I ricercatori hanno sfruttato le variazioni naturali nei programmi vaccinali nazionali – dovute all’introduzione o al ritiro di formulazioni contenenti quantitativi diversi di alluminio – per stimare l’esposizione cumulativa ricevuta da ogni bambino entro i primi due anni di vita.
Grazie all’accesso ai registri sanitari danesi, è stato possibile tracciare non solo le vaccinazioni, ma anche le diagnosi ospedaliere, le prescrizioni farmacologiche e i fattori socio-demografici. Successivamente è stata monitorata, dall’età di 2 anni fino ai 5 anni (e in alcuni casi fino agli 8), l’insorgenza di 50 patologie croniche, distinte in tre categorie principali: autoimmuni (36 patologie), atopiche/allergiche (9 patologie), e disturbi del neurosviluppo (5 patologie, tra cui disturbo dello spettro autistico Asd e Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività Adhd).
L’analisi centrale dello studio è stata la valutazione dell’hazard ratio (HR), cioè del rischio, per ogni milligrammo aggiuntivo di alluminio cumulato entro i 2 anni. I risultati non hanno mostrato alcuna associazione significativa con le patologie autoimmuni, né con quelle atopiche o allergiche, mentre per i disturbi del neurosviluppo è emerso un HR leggermente inferiore a 1 (HR 0,93; CI 0,90–0,97), suggerendo addirittura un’associazione inversa, cioè un effetto protettivo associato alla vaccinazione (associato qui non significa “causato da”). Analizzando specificamente l'autismo e l'Adhd, l’HR è risultato infatti rispettivamente pari a 0,93 (CI 0,89–0,97) e 0,90 (CI 0,84–0,96) per ogni milligrammo aggiuntivo, il che implica che per entrambe queste condizioni la vaccinazione è un atto medico associato ad un certo effetto percentuale di protezione.
Questi dati implicano che, contrariamente alle preoccupazioni diffuse, non vi è alcuna evidenza di un aumento del rischio di patologie – meno che mai autismo – connesso all’uso dell’allumino come adiuvante nei vaccini, e semmai indicano un rischio lievemente minore. Le analisi secondarie, estese fino agli 8 anni, hanno confermato la robustezza dei risultati. Non si è riscontrato alcun incremento del rischio né nei sottogruppi analizzati per genere, coorte di nascita o livello di esposizione, né dopo diverse verifiche di sensibilità riguardanti possibili bias o dati mancanti.
Gli stessi autori riconoscono alcuni limiti legati al disegno osservazionale dello studio, all’assenza di randomizzazione e alla possibile presenza di fattori confondenti non misurati, ma sottolineano l’improbabilità che un bias residuale possa invalidare risultati di tale portata, vista l’enorme dimensione del campione e la coerenza interna dei dati raccolti.
Ad oggi, questo lavoro costituisce la più ampia e metodologicamente solida indagine finora disponibile sull’argomento, fornendo evidenza contraria alla narrativa secondo cui l’alluminio presente nei vaccini pediatrici sarebbe associato a rischi rilevanti per la salute a lungo termine dei bambini. Esso conferma che l’uso di adiuvanti a base di sali di alluminio è sicuro e non è connesso a un aumento delle principali patologie croniche infantili. Invece, come sappiamo anche da notizie recentissime, il non uso dei vaccini è fortemente e direttamente connesso alla loro morte, con una probabilità più o meno alta a seconda della letalità dell’infezione contratta.
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