L’amara lezione di Bengasi e la debacle del “soft power”. L’analisi di Arditti

  • Postato il 9 luglio 2025
  • Politica
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È andata così: i ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta – insieme al commissario europeo per la Migrazione – sono atterrati l’8 luglio a Bengasi per incontrare il governo orientale libico guidato da Osama Hammad. E appena messi piede a terra sono stati dichiarati persona non grata, rispediti indietro e costretti a una partenza immediata. Non è un incidente. È un segnale. Politico, preciso, inequivocabile.

Chi comanda a Bengasi – cioè Hammad e, soprattutto, il generale Haftar – ha voluto far capire all’Europa due cose semplici. La prima: non si entra in Cirenaica come turisti, senza invito, dopo aver incontrato il governo rivale di Tripoli. La seconda: il riconoscimento diplomatico conta poco, conta chi controlla il territorio, le milizie, i pozzi di petrolio e le frontiere a sud. E su questo, Hammad e Haftar hanno più potere di chiunque altro.

Il punto è che la vicenda imbarazzante di Bengasi – con tre ministri europei trattati come se fossero clandestini – non è frutto di un errore organizzativo, ma la conseguenza diretta di una doppia illusione coltivata per anni in Europa e a Washington.

La prima illusione è quella che ha preso forma dopo la caduta di Gheddafi. Anno 2011: la Libia implode, i clan si moltiplicano, le armi girano senza controllo, e l’Occidente si convince che sia possibile “costruire la democrazia” senza esercitare forza reale. L’idea che basti organizzare un dialogo, inviare osservatori e finanziare Ong per ricostruire uno Stato tribale e petrolifero come la Libia è stata una delle più clamorose sciocchezze della stagione post-Gheddafi. Su quella linea si è mossa l’amministrazione Obama negli anni 2012-2013, sedotta dalla narrativa dei Fratelli Musulmani, trattati come interlocutori democratici anziché come strumenti ideologici del caos regionale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

La seconda illusione è più recente ed è squisitamente diplomatica. Consiste nel fingere che esista un solo governo libico, quello di Tripoli guidato da Dbeibeh, riconosciuto dall’Onu. Ma chiunque conosca la realtà sul terreno sa che le cose stanno diversamente: la Libia è spaccata in due e da anni convivono due governi, due eserciti, due sistemi di potere. Tripoli ha dietro la Turchia, Bengasi ha dietro la Russia, e in entrambi i casi si tratta di interventi esterni condotti fuori dal mandato delle Nazioni Unite. Sono presenze militari, logistiche, strategiche, che rispondono a logiche di influenza geopolitica, non di stabilizzazione multilaterale.

Non volerlo riconoscere è un esercizio da azzeccagarbugli diplomatici, utile solo a creare incidenti come quello dell’8 luglio. E infatti, ieri, tre ministri europei sono andati a parlare con un governo che l’Europa non riconosce ufficialmente, a riprova dell’ipocrisia di fondo con cui si affronta la questione libica. Si negozia con Bengasi perché si deve, ma si finge che esista solo Tripoli perché fa comodo sul piano giuridico. Questa è la perfetta sintesi della fumisteria diplomatica che tanto piace nei salotti di Bruxelles.

In Libia, invece, non c’è spazio per i deboli di cuore. Ci sono interessi pesanti: gas, petrolio, migranti, traffici, armi. E ci sono due poteri consolidati, ognuno con i suoi sponsor internazionali e i suoi alleati locali. Chi vuole contare davvero – e non solo passare come un visitatore respinto all’aeroporto – deve guardare in faccia la realtà e abbandonare le finzioni.

Tutti quelli che continuano a parlare a vanvera di “soft power” dovrebbero farsi spiegare dall’Eni come si gestiscono davvero certe situazioni. Con realismo, con presenza, con competenza. Tutto il resto sono chiacchiere da convegno.

Autore
Formiche

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