L’amore, il furore e le note di Händel sulle tracce di Ariosto. Con tanto affetto

  • Postato il 18 novembre 2025
  • Di Il Foglio
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L’amore, il furore e le note di Händel sulle tracce di Ariosto. Con tanto affetto

Nessun compositore prima di lui era stato oggetto della stesura di una biografia e lo scritto che John Mainwaring diede alle stampe nell’anno successivo alla scomparsa del maestro può essere considerato come un primo esemplare nella tradizione della biografia musicale. Ciò che l’autore mise per iscritto fu infatti tratto dalla testimonianza diretta di un assistente che dalla voce di Händel aveva raccolto, nell’estremo versante dell’esistenza del compositore, le memorie più preziose. Ed è curioso il fatto che persino Mozart avrebbe avuto tra le mani quel volume quando, dopo la genesi di quei capolavori assoluti che sono le tre sinfonie del 1788, si dedicò alla rielaborazione di alcune opere di Händel, approfondendo la figura dell’illustre predecessore e maturando nei suoi confronti immensa stima: “Egli – riferì nel periodo in cui lavorava a una strumentazione del Messiah – conosce meglio di tutti la via per produrre un grande effetto”.

Per la nuova edizione della Trilogia d’autunno, intitolata “L’invisibil fa vedere Amore”, l’attenzione di Ravenna Festival si è incentrata su Händel attraverso due celebri opere legate al poema di Ariosto – Orlando e Alcina – e, in chiusura del suggestivo trittico, il monumentale Messiah. La direzione di Ottavio Dantone alla guida di Accademia Bizantina e la regia di Pier Luigi Pizzi ci hanno portato nella maturità del compositore sassone, restituendo con sembianze d’estremo fascino, sul palco del Teatro Alighieri di Ravenna, due capolavori di un autore che, dopo una prima attività nel paese d’origine, avrebbe donato alla storia non solo una fitta serie di opere teatrali ma anche, in una Inghilterra segnata da una fiorente tradizione corale, una copiosa produzione di oratori in lingua inglese. A differenza del contemporaneo genio bachiano che scaturiva da una genealogia ricolma di musicisti, la creatività di Händel si generò dalla risolutezza di un giovane che, superando le iniziali resistenze del padre, mostrò inconfondibile vocazione all’arte dei suoni e tale strada perseguì tenacemente nei successivi spostamenti nella terra natale e poi in immancabili – e decisivi per la sua formazione – viaggi in Italia. Ma solo a Londra – assumendo la cittadinanza britannica già dal 1727 – avrebbe concepito le opere di maggior rilievo dando vita a una produzione musicale che, come scrive Alberto Basso, “incatena, che splende di luce (…) e che vive oltre il suo tempo”.

Sebbene l’opera, dopo le prime esecuzioni, sia caduta nell’oblio per quasi due secoli (una vera e propria riscoperta avvenne nel 1922), Orlando è da considerarsi uno dei capolavori di Händel per l’intensità drammatica, l’efficacia con cui trascina l’ascoltatore – dall’eroismo alla mestizia dei profondi sconforti – nella rappresentazione degli affetti, nelle alterne vicissitudini e nel tormentato percorso interiore del protagonista. E alle trame del poema di Ariosto il compositore sarebbe tornato due anni più tardi con Alcina, rappresentata nella seconda serata ravennate, durante la quale ci è parso di cogliere con inaspettata evidenza quanto la portata del teatro händeliano si fondi su tensione introspettiva, profondità drammatica, quella “capacità – per usare le parole di Donald Grout – di rendere in musica l’essenziale di uno stato d’animo o di un affetto”. L’impressione è stata quella di un viaggio attraverso le più distinte sfumature espressive, nell’arte segnatamente barocca “di ben modulare una voce sola, onde esprimere – come scrisse il primo biografo – le svariate passioni ed affezioni dell’animo”. Quanto è profonda l’interiorità – verrebbe da dire – lo comprendiamo in questi capolavori che il passato ci consegna, nel partecipare a quel culmine di introspezione che la sensibilità barocca individuò nell’aria, sorta di vertiginosa immersione nel sé non a caso annoverata un migliaio di volte nel catalogo händeliano: “La voce di Alcina – osservava Jean Starobinski – occupa tutto l’immenso registro che va dal trionfo alla disperazione, dall’amore al furore”.

Tra gli oratori di Händel spicca il Messiah che Accademia Bizantina e Coro della Cattedrale di Siena, preparato da Lorenzo Donati, hanno offerto al pubblico di Ravenna Festival nella serata conclusiva: quest’opera estremamente eterogenea e unitaria al contempo è stata restituita dagli esecutori nel candente splendore di sonorità antiche eppure nuove. Più che assecondare la struttura di un vero e proprio oratorio, la monumentale partitura si allontana dai caratteri drammaturgici di altre pagine, configurandosi come una meditazione sui contenuti della fede cristiana: a noi è parsa risplendere in sembianze non dissimili da quelle di taluni cicli di affreschi o certe pale d’altare che, nella loro composita bellezza, riescono a condurre l’anima dinanzi al mistero dell’infinitamente altro.

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Autore
Il Foglio

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