Le rivelazioni del pentito Pasquino sul boss Gallace: «Era il capo del crimine di Polsi»

  • Postato il 28 luglio 2025
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Le rivelazioni del pentito Pasquino sul boss Gallace: «Era il capo del crimine di Polsi»

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Il pentito del narcotraffico globale Pasquino racconta l’ascesa del boss Gallace da Guardavalle al vertice del crimine di Polsi

CATANZARO – «Cosimo Damiano Gallace è stato sicuramente capo crimine di Polsi nel 2019. Ho avuto ritorno della sua autorevolezza parlando con tutti: i platioti, i sanlucoti, i reggini…». Parola di Vincenzo Pasquino, pentito del narcotraffico globale ed ex braccio destro dell’ex super latitante Rocco Morabito. Ci sono anche le sue rivelazioni agli atti dell’inchiesta della Guardia di finanza e della Dda di Catanzaro che nei giorni scorsi ha portato all’operazione Kleopatra, con cui è stato inferto un duro colpo alla cosca stanziata a Guardavalle, nel Catanzarese, ma con ramificazioni in Lazio e Lombardia e al centro di una rete internazionale per l’approvvigionamento di ingenti quantitativi di narcotici dal Sudamerica. Rivelazioni, quelle di Pasquino, che aprono squarci di luce anche sulla geografia mafiosa della ‘ndrangheta, che nonostante si sia trasformata in una holding internazionale del crimine mantiene inalterata la sua struttura. La ‘ndrangheta si conferma, infatti, soggetto criminale transnazionale antico e moderno al tempo stesso, perché le decisioni abbisognano sempre di un passaggio formale dinanzi al suo organo di vertice collegiale, il crimine di Polsi appunto. Era emerso anche da una recente inchiesta della Dda di Reggio Calabria, quella denominata Millennium, che avrebbe delineato il ruolo di Giuseppe Barbaro di Platì al vertice di un “corpo unico”.

GALLACE TEMUTO E RICONOSCIUTO

Nella complessa ricostruzione degli inquirenti che hanno condotto l’operazione Kleopatra, le rivelazioni di Pasquino giocano un ruolo fondamentale, sia pure corroborate da controlli su strada, negli alberghi in cui soggiornava la gang, sui voli, sulle auto prese a noleggio, senza dire degli imponenti carichi di droga sequestrati. È Pasquino che definisce Gallace un personaggio «autorevole e riconosciuto da tutti». Anche gli “spacconi” quando sentono il suo nome “si spagnano” (hanno timore, ndr). «Damiano Cosimo Gallace è una persona di poche parole ma è seguito immediatamente da tutti. Impossibile contraddirlo, per il timore che incute. Nel settore della droga ha agganci dappertutto potendo contare sulle ramificazioni della famiglia ad Anzio e Nettuno, nell’hinterland milanese, a Forenze, a Torino, in Germania, in particolare a Francoforte e Wiesbaden, in Olanda, Belgio, Argentina e Australia». E proprio la sua “autorevolezza”, in senso criminale ovviamente, gli consentirebbe di movimentare ingenti carichi di droga al porto di gioia Tauro, dove per lo scarico sarebbe corrisposta alle cosche di Rosarno una percentuale inferiore al “dovuto” (del 15% rispetto al 25%). Almeno questo sostiene Pasquino. «La droga, ovunque arrivi, viene convogliata sulle più importanti piazze di spaccio, Roma e Milano. In Calabria rimane poco».

Proprio per la sua autorevolezza criminale il boss di Guardavalle, la cui latitanza finì nell’ottobre 2021 in un bunker realizzato in un impianto di calcestruzzo a Isca sullo Ionio, sarebbe riuscito a comporre la diatriba, oggetto di un summit ad Anzio, con i “disertori” costretti a versare parte dei loro introiti ai Gallace.

REFERENTI E AGGANCI NEI PORTI

Per conto della consorteria, Pasquino operava in Brasile, dove gestiva in prima persona le spedizioni. Le spedizioni di cocaina partivano anche dalla Colombia, ma in casi critici il gruppo criminale si spostava in Perù, dove i porti sono sottoposti a minori controlli. La Colombia, considerata la patria della cocaina, è più attenzionata dalle forze dell’ordine rispetto ad altri Paesi sudamericani. Le squadre che si occupavano della “salida”, cioè della partenza dei carichi di stupefacenti, erano ben addestrate e varie erano le modalità di spedizione. Dalla droga liquida, sparsa nei cartoni o nel succo di frutta, per recuperare la quale il clan aveva a disposizione i suoi “chimici”, ai vani dei pallet, in modo da non rischiare perdite nei vari scali. La gip distrettuale di Catanzaro Gilda Danila Romano, che ha esaminato gli elementi della corposa indagine, osserva che i narcos che agivano in Brasile erano uomini “fidati”, in stretto collegamento con quelli italiani, ai quali assicuravano minori intoppi possibili. Indicavano numeri di container, dati della nave, tipologia delle merce che fungeva da alibi per la spedizione, che potevano spaziare dai polli surgelati alle banane.

INFEDELI E CHAT CRIPTATE

Uno dei protagonisti della rete internazionale del narcotraffico sgominata della Dda sarebbe stato senz’altro il broker Cesare Antonio Arcorace, il cui alias utilizzato nelle conversazioni criptate, Kleopatra, ha fornito lo spunto agli inquirenti per il nome in codice per l’operazione sfociata in nove arresti (ma sono 59 gli indagati). Referenti anche in Toscana e nel Lazio, perché sono coinvolti nei traffici anche i porti di Livorno e Civitavecchia. Il principale canale di affari è l’introduzione in Europa di imponenti carichi di stupefacenti provenienti dal Sudamerica ma, spiega sempre il pentito, una delle maggiori porte di ingresso in Italia resta il porto di Gioia Tauro. Qui le entrature sarebbero garantire da portuali infedeli in contatto con Gallace. Da uno dei capi d’imputazione si evince che gli agganci del clan erano anche al porto di Trieste, dove un terminale era completamente “a disposizione” della cosca.

Le chat criptate operanti su server stranieri assicuravano agli indagati interlocuzioni sicure al riparo dai controlli delle forze dell’ordine. Lo rivela Pasquino ma emerge anche dalle conversazioni acquisite dagli inquirenti. La fiducia che i narcos della ‘ndrangheta riponevano sui criptofonini si ricava dal fatto che, pur con i loro nomi in codice, discutono apertamente di cifre e affari. Mittenti e destinatari si scambiavano perfino le foto delle partite di droga spedite. Una chat veniva avviata e chiusa per ogni singolo affare.

DA LATITANTE GALLACE PIANIFICA IL TRAFFICO DI 500 KG DI COCA

I ruoli all’interno dell’organizzazione criminale transnazionale erano ben definiti. Chi dal Sudamerica spediva, chi attendeva nei porti insieme alle squadre di recupero, chi recuperava i fondi. Ma al vertice c’è il boss Gallace, il cui ruolo emerge anche dal capo d’accusa relativo al maggiore acquisto di sostanza stupefacente. Parliamo di 500 chili di cocaina giunti al porto di Gioia Tauro nel febbraio 2021. Un’operazione pianificata dal carcere di Siracusa da Francesco Riitano, uno degli indagati di maggiore spicco, e dal boss Gallace allora latitante, con la mediazione di Lucio Aquino, allora detenuto in Belgio. Sarebbe stato proprio Gallace ad occuparsi della raccolta del denaro dei vari finanziatori da recapitare successivamente in Olanda tramite un emissario di Milano. Il container con la droga era imbarcato su una motonave proveniente dall’Honduras e in transito a Panama. L’esfiltrazione del narcotico sarebbe avvenuta grazie ad emissari non meglio identificati di Vincenzo Alvaro, esponente di vertice dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, co-detenuto nel carcere di Siracusa, a cui sarebbe stato corrisposto il 20 per cento del valore del carico anche per compensare operatori portuali e un funzionario doganale infedeli.

Ma per movimentare la droga in Europa, i Gallace avevano uomini anche in Germania e Svizzera. La cocaina passava, infatti, dai porti di Santos a quello di Rotterdam ma anche dall’aeroporto di Francoforte per poi arrivare in Italia attraverso i porti di Livorno, Gioia Tauro, Trieste.

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