L’evoluzione del costume da bagno e la Calabria del ‘900
- Postato il 8 luglio 2025
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Il Quotidiano del Sud
L’evoluzione del costume da bagno e la Calabria del ‘900
Il costume da bagno rappresenta il capo per eccellenza legato all’evoluzione della nostra società, forse in ritardo ma anche sulle spiagge della Calabria
VERSATILE, funzionale, a volte iconico, il costume da bagno rappresenta, in ogni sua declinazione, il capo d’abbigliamento maggiormente legato ai cambiamenti della nostra società. È la summa di una lotta perenne tra la necessità di preservare il senso del pudore, cercando di celare e custodire le proprie individuali nudità mentre si sta in contesti nei quali si condivide lo spazio di percezione delle nudità altrui, e la necessità di esporsi e scoprirsi, di protendersi verso una sorta di liberazione stagionale, e non solo, dai multi strati invernali e culturali.
Un capo d’abbigliamento “paradossale” capace di rappresentare, nel corso della propria evoluzione storica, un modo di svestire rimanendo simbolo del vestito stesso. In pochi centimetri di tessuto, ad oggi, è racchiusa una funzionalità estetica decisamente diversa da quella esercitata dai modelli precursori dei contemporanei costumi da bagno. La concezione attuale di ciò che nel linguaggio comune indichiamo con l’espressione “andare al mare” non era concepiva secoli e secoli addietro. Frequenti erano le abluzioni in acqua dolce o salata ma questa ritualità presupponeva un outfit decisamente nature, l’immersione avveniva spesso senza vestiti.
La prima mise da bagno viene documentata intorno al 1400. Caratterizzata da corpetto con spalline e gonna, a volte completata da un turbante. Bisognerà aspettare il XVIII secolo quando a Parigi si iniziarono a comprendere i benefici delle immersioni in acqua configurandosi progressivamente l’abitudine di spostarsi sulle coste della Normandia o della riviera mediterranea per godere delle salutari proprietà dell’acqua di mare, è qui che nasceranno le prime sperimentazioni di abbigliamento da spiaggia.
Per intenderci stiamo parlando di realizzazioni in tela da marinaio o in lana, questi materiali una volta bagnati non aderivano ai corpi e di gran lunga ostacolavano la piena libertà di movimento. Immergersi in mare, d’altro canto, era considerato un passatempo poco femminile e per questo alle donne era imposto di non immergersi completamente in acqua e di farlo solo indossando lunghi e ampi abiti. Solitamente questi erano realizzati e provvisti di un secondo orlo appositamente imbottito di piombo per non farli galleggiare, evitando così di scoprire parti del corpo indesiderate e garantire un aspetto decoroso.
La nudità, quella sensualità celata, a volte repressa, sarà il perno intorno al quale ruoterà l’intera e travagliata vicenda del costume da bagno legandolo, quasi inconsapevolmente, ad un’altra storia fatta di lotte e conquiste, quella dell’emancipazione femminile. Il paradosso della storia, vuole però, che a lasciare un’impronta indelebile nel mondo della moda, attraverso lo sdoganamento della castità visiva del corpo della donna, sia il nome di un uomo. Stiamo parlando di Louis Réard, inventore del bikini, il costume da bagno che ha rivoluzionato l’abbigliamento da spiaggia.
Ingegnere meccanico di professione e stilista per passione, nel luglio del 1946, in un’epoca in cui mostrare il corpo era ancora un tabù, Réard presentò il suo audace capo di abbigliamento, scatenando clamore e fascino. La sua innovativa creazione si ispirava al modello Atome del suo predecessore Jacques Heim (un costume due pezzi che scopriva una piccola parte del ventre) e influenzata dal fermento delle spiagge di Saint Tropez, qui il coraggioso stilista aveva infatti notato come le donne avessero l’abitudine di arrotolarsi i costumi in favore dell’abbronzatura. Decise così di lanciare il bikini: un costume a due pezzi che scoprisse per la prima volta l’ombelico delle donne.
Il nome “bikini” fu ispirato dall’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, dove solo pochi giorni prima gli Stati Uniti avevano effettuato test atomici. Réard scelse questo nome sperando che il suo nuovo costume da bagno avrebbe creato un impatto “esplosivo” simile a quello delle bombe nucleari.
La storia dimostra che non si sbagliava. Deciso a creare un costume che esponesse più pelle, tagliò un tradizionale due pezzi, riducendo drasticamente la quantità di tessuto. Il risultato: un capo che lasciava poco all’immaginazione e proprio questo “grande” dettaglio rese difficile reperire una modella disposta ad indossarlo per la presentazione ufficiale.
Di certo Réard non era il tipo da farsi intimidire dalle circostanze infatti assunse Micheline Bernardini, una danzatrice del Casino de Paris, nota per le sue esibizioni di nudo. La scelta si rivelò vincente. Bernardini indossò il 5 luglio 1946 presso la piscina Molitor di Parigi, il bikini con disinvoltura, suscitando scalpore e attenzione mediatica. Il debutto scatenò indignazione e rifiuto. Venne duramente osteggiato dal Vaticano che lo dichiarò addirittura “peccaminoso”. Bandito ufficialmente in Spagna, Portogallo, Italia, Belgio e Australia, rimase fuori legge anche in diverse zone degli Usa fino al 1959. Il beneplacito da parte dell’opinione pubblica venne concesso grazie, e forse soprattutto, all’impatto culturale che il cinema fu in grado di avere nella società di allora.
Il primo bikini della storia del cinema è quello indossato da una giovanissima Brigitte Bardot nel 1958, nella pellicola diretta dal regista Roger Vadim “Et Dieu… créa la femme “. L’anno successivo uscì nelle sale italiane “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi con i costumi di Dina di Bari che fece indossare il bikini all’attrice Stefania Sandrelli. Ma la consacrazione del celebre costume nell’immaginario collettivo è legata al nome, e alla fisicità, di Ursula Andress. Nel 1962 in “Agente 007: Licenza di uccidere” (regia di Terence Young e costumi di Jodie Lynn Tillen) la Andress esce dall’acqua indossando un bikini bianco leggermente trasparente. Ed è subito eternità.
E in Calabria? La vita da spiaggia per le donne calabresi facile e felice come la viviamo oggi di certo non è stata. Interessante è lo spaccato di vita balneare della Marina catanzarese fornito dal racconto di Elisa Giovene. La Marina di Catanzaro, che come sottolinea la Giovene nacque come “Villaggio Marina” vede gli stabilimenti balneari nel 1925 divisi in due zone, una riservata alle donne e l’altra agli uomini. Alla zona “donne” poteva accedere solo il coniuge usando la cabina della moglie, non era concessa nessuna nudità, l’abbigliamento maschile non faceva eccezione. Questo constava dell’obbligo di indossare il “calzonetto”, come previsto da un emendamento redatto dall’Ufficiale di Governo. La moda marinara era molto castigata, mantelli e ampie gonne permettevano solo ad esigui pezzi di pelle di godere del brivido della nudità.
Bisognerà aspettare gli anni’ 50 per cominciare a percepire un cambio direzionale sulle spiagge anche calabresi. «Viene ancora usato il costume intero, molte le ragazze nella “Marina” lo indossano e a quello in maglia, generalmente nero, si aggiungono gli elasticizzati con diverse colorazioni che, come quelli in cotone, che riportavano una breve gonnellina per coprire la parte alta delle gambe. L’estate è un ottimo pretesto per la moda e nella mitica terrazza del ristorante/bar “Carmelina” (ugualmente conosciuto come Miramare) le fogge sono varie. Tuttavia in spiaggia vige anche la semplicità e le ragazze portano sobri costumi colorati, molto usato il verde, il rosso e il turchese, o con fantasie a pois e fiori, che potevano usualmente ritrovarsi su larghi cappelli in paglia». (Elisa Giovene. La moda del costume da bagno dagli anni ‘30 ai ‘60, anche a Catanzaro).
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L’evoluzione del costume da bagno e la Calabria del ‘900