L’identità estetica coreana al Fotografia Calabria Festival
- Postato il 13 agosto 2025
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Il Quotidiano del Sud
L’identità estetica coreana al Fotografia Calabria Festival
Al Fotografia Calabria Festival il progetto Urban Tattoo del fotografo coreano Jung Ui Lee
DAL 1° agosto al 12 ottobre 2025, San Lucido (Cosenza) si trasforma in un palcoscenico diffuso per la fotografia contemporanea: torna infatti Fotografia Calabria Festival, giunto alla sua quarta edizione, con un programma ricco di mostre, incontri e progetti speciali che animeranno il centro del Tirreno calabrese per oltre due mesi. Sostenuto da Strategia Fotografia 2024, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, e con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Festival si conferma tra gli appuntamenti più vivaci dedicati alla fotografia d’autore in Italia, grazie a una proposta curatoriale che intreccia ricerca visiva, educazione e respiro internazionale.
Fra le iniziative più interessanti del Fotografia Calabria Festival la mostra del fotografo coreano Jung Ui Lee, che in Urban Tattoo – This is Beautiful trasforma il caos visivo delle insegne commerciali coreane in segni di memoria collettiva e resilienza urbana.
Come è nato il progetto “Urban Tattoo” che sarà presentato al Fotografia Calabria Festival?
«Questo progetto si è sviluppato in due fasi principali: un periodo iniziale plasmato da una prospettiva critica e una fase successiva plasmata da una crescente ammirazione. Ho scattato la prima fotografia per questa serie nel 2015. All’epoca, non mi piacevano queste insegne, soprattutto perché ero stato educato a reagire così. Negli anni ‘90, la Corea del Sud era all’apice della sua rapida crescita economica. Il governo aveva iniziato a prepararsi agli effetti collaterali e ai limiti di quella crescita, introducendo programmi scolastici che enfatizzavano le questioni ambientali, l’espansione urbana e l’erosione culturale. All’epoca, il presidente Kim Young-sam promuoveva l’idea che la globalizzazione fosse essenziale per la sopravvivenza della Corea e che dovessimo seguire “standard globali”. Ero uno studente modello di questa ideologia. Dopo la guerra di Corea, il Sud si dovette ricostruire dopo una distruzione quasi totale. In quel processo, c’era un senso di vergogna per la perdita del contatto con la tradizione. Tuttavia, poiché la crescita economica era la priorità assoluta, velocità ed efficienza hanno avuto la meglio su tutti gli altri valori, estetica compresa. Di conseguenza, nuove città sono emerse senza alcuna considerazione estetica. Ironicamente, questa assenza di estetica ha creato un’identità visiva unica, quella che oggi riconosciamo come architettura e segnaletica coreana. Ma a quel tempo, questi segnali venivano liquidati come sottoprodotti di un capitalismo incontrollato e destinati alla rimozione. Ero d’accordo con questa visione. Il nostro sistema educativo promuoveva l’idea che dovessimo emulare la bellezza delle città europee. Sotto la bandiera della globalizzazione, abbiamo importato l’estetica europea invece di cercarne una nostra. Data la reputazione del governo coreano per la rapidità e l’audacia nell’esecuzione, davo per scontato che questi segnali sarebbero presto scomparsi. Questa era la mentalità alla base della fase iniziale del progetto. Intorno al 2020, tuttavia, i miei pensieri hanno iniziato a cambiare. Più fotografavo, più mi chiedevo: “È davvero brutto? Ho il diritto di criticarlo?».
Come si è trasformata la città durante il tuo lavoro?
«Le insegne sono state ufficialmente etichettate come inquinamento visivo, sono diventate oggetto di regolamentazione attraverso incentivi e sanzioni. Se a questo si aggiunge l’alto tasso di chiusura delle piccole attività commerciali in Corea, il cambiamento è avvenuto rapidamente. Una delle restrizioni più simboliche era il divieto di usare il nero o il rosso come colore di sfondo per la segnaletica. Ma c’era qualcosa che mi era sfuggito. Gli imprenditori coreani, noti per la loro creatività, hanno iniziato a camminare sul filo del rasoio delle normative, destreggiandosi e testando costantemente la sottile linea di confine tra ciò che era permesso e ciò che non lo era. Hanno trovato soluzioni intelligenti per preservare la loro espressione. “Se non possiamo usare il nero, useremo solo colori scuri!”. Questo è il tipo di risposta energica a cui ho spesso assistito. Alla fine, il governo ha ammesso l’inefficacia delle sue politiche».
Pensi che le insegne siano più simili a tatuaggi o a cicatrici?
«Queste insegne sono sopravvissute ad anni di pressioni governative, ma c’è un’altra minaccia: l’alto tasso di fallimenti delle piccole imprese in Corea. Permettetemi di condividere un dettaglio di cui non ho mai parlato pubblicamente. Se guardate attentamente – molto attentamente – le foto, magari con una lente d’ingrandimento, noterete decine di vecchi fori di viti sotto le insegne attuali. Questi sono i resti della vecchia segnaletica, un tempo saldamente fissata. Sono cicatrici. E ogni nuova insegna, sovrapposta alla vecchia, è come un tatuaggio che segna un nuovo inizio. Quando ho iniziato questo progetto nel 2015, i coreani generalmente consideravano queste insegne come sottoprodotti industriali, cicatrici di un’epoca di rapida crescita. Spesso erano confusi dalle mie foto: “Questo dovrebbe essere bello?”, chiedevano alcuni. “Agli stranieri piace davvero questo?” Ma questa mentalità è cambiata. Come ho detto prima, i coreani hanno acquisito maggiore fiducia nella propria cultura. Di conseguenza, c’è una crescente accettazione e persino orgoglio per la nostra identità estetica».
Il Fotografia Calabria Festival è la tua prima volta in Calabria? Come la fotograferesti?
«Mentre ero in Corea, avevo sentito molto parlare della bellezza del sud Italia, ma vederla di persona mi ha lasciato senza parole. Durante il mio soggiorno in Calabria, mi sono ritrovato naturalmente a voler fotografare la zona. Mi sono chiesto: “Cosa dovrei fotografare?” Può sembrare un cliché, ma mi piacerebbe fotografare vicoli, strade e negozi ordinari. Ho sempre lavorato seguendo il tema: “Ogni città merita il suo Eugène Atget (n.d.r. pioniere della fotografia francese)”. Ciò che può sembrare banale o familiare alla gente del posto può apparire profondamente poetico e bello per un estraneo come me. A volte, trascuriamo la bellezza di ciò che è troppo familiare. Per me, tutto in Calabria è fresco, bello e degno di essere documentato. Ad esempio, ho fotografato una basilica in rovina su una collina ad Amantea. Per la gente del posto, potrebbe essere una visione fissa e quotidiana, quella che vedono quando aprono le finestre al mattino. Ma per me, sembra un sogno, persino surreale. Posso solo chiedermi se quella basilica esisterà ancora tra anni. Ma la fotografia rimarrà a prova che “è esistita davvero”».
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