L’inganno di Ryad: modernissimo Medioevo

  • Postato il 23 agosto 2025
  • Di Panorama
  • 4 Visualizzazioni

Camminando sulla passerella sospesa nel vuoto a 300 metri d’altezza, al 99esimo piano del Kingdom Center, la vista su Riyad lascia confusi: una distesa di case tutt’altro che belle, enormi stradoni dritti su cui svettano grattacieli che scimmiottano male l’Occidente e, ovunque, cantieri puntellati da operose gru. Osservando da questo vertiginoso passaggio chiamato SkyBridge, che taglia la cima del grattacielo più famoso e alto della capitale (a qualcuno ricorda l’“Occhio di Sauron” nella saga cinematografica del Signore degli anelli), si respira l’idea di uno Stato nascente: l’Arabia Saudita è oggi il Paese più ricco del Golfo Persico e uno dei potentati mondiali, con un Pil che ha sfondato i 1.000 miliardi di dollari e un reddito di 33 mila dollari pro-capite. Non a caso, proprio qui si è tenuto il primo (ipotetico) tavolo di pace tra Russia e Ucraina. E sempre qui Donald Trump ha annunciato la sua dottrina politica che disegna un nuovo ordine mondiale. Trent’anni fa, questa metropoli era semplicemente un’insignificante città mediorientale che spuntava da una scatola di sabbia.

La scatola è rimasta lì, ma nel frattempo la città è diventata uno dei centri mondiali del capitalismo. Guardando giù da questa altezza vertiginosa è più facile comprendere come è possibile che l’Arabia si stia comprando mezza Europa e che gli arabi stiano lanciando la loro sfida alla civiltà occidentale.

Qui c’è la sede del Pif, il fondo sovrano del regno, il potente braccio finanziario della famiglia regnante Al Saud: ha un patrimonio di 1.000 miliardi di dollari e una fetta sempre più consistente è investita appunto nel Vecchio continente, dall’aeroporto di Londra Heathrow, il più grande scalo europeo, alla ex rete Tim fino al Giro d’Italia. I turisti atterrano a frotte a Dubai, la Las Vegas del Golfo Persico, il parco divertimenti degli occidentali. Ma gli affari si fanno qui. I grandi capitali si muovono dentro il Kafd (King Abdullah Financial district), l’unico centro finanziario di tutta l’immensa e desertica penisola.

Per salire sullo SkyBridge, biglietto da quasi 20 euro, bisogna entrare dentro l’ennesimo centro commerciale, invaso di marchi del consumismo occidentale, da Gucci a Louis Vuitton, dove però salta all’occhio il cinema Vox, un multisala. Per l’Occidente si tratterebbe di normalità, ma non per l’Arabia Saudita: l’islam pervade tutto e il Corano vieta ogni espressione artistica blasfema e, ovviamente, il cinema, invenzione occidentale, è al primo posto.

Da qualche anno però, Mohammed Bin Salman, o come dicono tutti Mbs, il principe ereditario al trono, ha avviato un programma di laicizzazione del Paese, di apertura. Le donne possono adesso lavorare e anche guidare l’automobile, attività prima vietate.

E dunque anche entrare in una sala cinematografica (ma i film sono rigorosamente filtrati dalla censura) è un piccolo passo per loro, ma un salto gigantesco per la modernizzazione.

Già atterrando si percepisce questo cambiamento: l’aeroporto King Salman, intitolato al re ancora vivente, tanto per far capire come girano le cose, e anch’esso di proprietà del Pif, è modernissimo. Dominano pulizia e ordine: le autocrazie hanno i loro vantaggi. Sono le 8 di sera e c’è pochissima gente. Non è il giorno sbagliato: l’islam proibisce l’alcol, i locali e la vita notturna in generale.

Il passaggio della frontiera è velocissimo: i poliziotti al controllo visti sono tutte donne. Ecco la rivoluzione da toccare con mano? Più no che sì, perché più che poliziotti, sono donne coperte da un burqa totale nero, che lascia a malapena spazio per gli occhi. Più che una ritrovata indipendenza, colpisce il dispotismo dell’abbigliamento. L’Arabia del 2025 si vuole scrollare di dosso la nomea di Paese oscurantista, l’ingombrante eredità dell’omicidio Kashoggi, il giornalista trucidato dentro l’ambasciata saudita di Istanbul. Lo stesso Mbs, peraltro, ha preso il potere in modo non proprio da democrazia occidentale, ma con una purga in stile sovietico: anni fa fece rinchiudere decine di cugini, potenziali eredi al trono, e uomini d’affari dentro al fantasmagorico Ritz-Carlton di Riyad, un gargantuesco albergo che è una cafonissima imitazione di un palazzo parigino dell’Ottocento, tra lampioni stile ville lumière e un ingresso come l’Arc du Triomphe. Da allora fu ribattezzato “la prigione più lussuosa al mondo”.

La grandiosità locale tocca l’apice nella nuova metropolitana: automatica, corre in parte su una sopraelevata per poi sfilare sottoterra. Quando gli scintillanti vagoni della Alstom si avvicinano al centro finanziario, con i grattacieli che svettano, sembra di essere nella City di Londra o a Downtown Manhattan. La stazione è un tripudio di architettura, una specie di alveare a più piani, disegnato dallo studio Zaha Hadid. Quella di Riyad è oggi la metropolitana più bella ed efficiente al mondo, però è anche il trionfo di una sorta di apartheid: le carrozze sono separate, tra uomini e donne, ma anche per livelli sociali. Le donne arabe, tutte in burqa, sono segregate in un vagone apposito, dove nessun altro può entrare. C’è poi il vagone di “Prima classe”, dove si dovrebbe pagare un biglietto più caro ma nessuno controlla: dentro ci sono solo i maschi arabi, la classe dominante, tutti con tuniche bianche immacolate e le kefiah a quadretti rossi e bianchi di tessuto pregiato.

Se ne vedono a piedi scalzi sui sedili nuovi di costoso velluto. Tutti gli altri, i plebei, viaggiano nell’affollato vagone “Famiglia”. Nelle stazioni, squadre di pulizie, composte tutte da africani, puliscono inutilmente ciò che è già pulito e nuovo. La metro e tutti i mezzi pubblici sono contactless, il contante è scomparso, ma i bus li usano solo gli immigrati poveracci e la metro, per ora, pare più una giostra dove gli arabi vanno a passare del tempo che un trasporto pubblico. Nessuno cammina a piedi, anche per il caldo da girone infernale: 40 gradi già a fine aprile, intorno ai 45 e oltre in agosto.

Tutti sono in auto, giorno e notte, in un traffico anch’esso dantesco: caotico, senza regole. Lungo queste autostrade di città, mega-cartelloni pubblicitari mostrano la famiglia da Mulino Bianco: è araba, padre e figlio in tunica, moglie in burqa.

Non c’è la fissazione della famiglia multietnica, non ci sono neri, asiatici o europei, non c’è l’inclusività che ormai ha ammorbato ogni pubblicità in Occidente. Nelle stanze dell’hotel Ramada, catena occidentale di ospitalità, uno dei tanti che si affacciano su queste enormi e rumorose lingue di asfalto, ogni armadio contiene una copia del Corano e un tappetino per pregare. In Europa, le Bibbie negli alberghi sono scomparse da decenni: facevano troppo provinciale o passatista.

Il Medioevo, della società, della cultura e della religione, e il 21esimo secolo del progresso tecnologico vivono uno accanto all’altro: mentre l’Occidente muore di inclusione, di dottrina Dei e di wokismi vari, qui il classismo e il razzismo sono esibiti, quasi con orgoglio.

Il futurismo dentro la metro si scontra con la sporcizia ovunque, fuori. In strada, basta girare l’angolo e si passa dai centri commerciali super-lusso, dagli uffici delle multinazionali occidentali (Deloitte, Blackrock, EY) al Terzo mondo: bidoni dell’immondizia che traboccano emanando un tanfo insopportabile, sotto il sole cocente, marciapiedi sbriciolati, rifiuti ovunque, gente che lavora in mezzo alla strada con uffici improvvisati e abusivi.

Eppure già in aereo, arrivando, il diavolo aveva rivelato i suoi dettagli mefistofelici: la compagnia di bandiera Saudia ha solo personale straniero, dai piloti agli steward. Gli arabi non fanno lavori che considerano umili, sono da sempre soltanto una classe dirigente, si limitano a viaggiare in First class (che pure la Business non è abbastanza snob), sui loro aerei. In fondo al velivolo, tra le mandrie della classe economica, si nota una grande tenda che occupa un grosso spazio. Sbirciando dentro, si scopre che è una sala preghiere volante: non ci sono sedili, ma tappeti e uno schermo indica l’orientamento della Mecca, così pure a 10 mila metri di altitudine il fedele musulmano sa in quale direzione pregare. Una compagnia aerea che rinuncia a decine di posti, e dunque a milioni di dollari di incassi ogni anno, in nome della religione, o è molto ricca o è molto integralista. Saudia, e tutto il Paese, sono entrambe le cose.

Riyad conta 7,5 milioni di abitanti, poco meno di New York o Londra, ma la guida Lonely Planet suggerisce una lista davvero risicata, per non dire inesistente, di luoghi da visitare: l’unica meta culturale della città è il recente National museum, il museo nazionale, in realtà un’accozzaglia di reperti, da asteroidi e dinosauri, a barche ed armi medievali fino alla storia moderna. Il piano superiore è un’apoteosi dell’islam, di cui si magnifica l’espansione imperiale nel corso dei secoli, dai saraceni, agli ottomani, fino alla famiglia regnante Al Saud. Peccato che i pannelli si siano “curiosamente” dimenticati di Alessandro Magno, della Arabia Felix provincia dell’impero romano, cancellando secoli di storia precedenti alla nascita di Maometto. Non c’è nemmeno alcun riferimento alla Reconquista della Spagna da parte dei re cattolici, o alla cruciale battaglia di Lepanto che respinse l’avanzata islamica in Europa. La storia dell’islam che si apprende nel museo di Riyad è solo un’enfatica cavalcata di regno in regno, uno più splendido dell’altro.

L’evidente dicotomia si trasmette anche all’urbanistica: quello che dovrebbe essere il centro di Riyad è una cacofonia di grattacieli che si susseguono ai bordi di una superstrada a 9 corsie. In una gara diabolica a chi è più kitsch, tutto ha il sapore dell’esagerato e dell’inutile. Uno spreco di risorse, dall’elettricità, per tenere l’aria condizionata ovunque 24 ore al giorno, all’acqua potabile per irrigare giardini artificiali e le docce di centinaia di alberghi, che nascono come funghi. È uno stile di vita che richiede enormi quantità di acqua (in media 200 litri a testa) che Riyad non ha: usa quella del mare. Peccato che disti 1.200 chilometri. Sulla costa ci sono enormi impianti di dissalazione e il prezioso liquido viene trasportato con lunghissime tubature fino alla città. Come se a Milano l’acqua del rubinetto arrivasse ogni giorno da Reggio Calabria. Il solo Ritz Hotel consuma quanto un quartiere di Roma o una cittadina italiana, ma in Europa è peccato girare in auto diesel o anche solo fare un barbecue perché c’è il cambiamento climatico. La sostenibilità è una parola sconosciuta a Riyad, anzi peggio: la conoscono, ma se ne fregano.

In giro non si trovano cartoline: nemmeno i negozi per turisti le vendono. «Non è parte della nostra cultura» spiega una ragazza musulmana impiegata alla concierge di un albergo. Per coerenza non lo sarebbero nemmeno i tanti Burger King e altre decine di fast food che si vedono in giro. Evidentemente, la cultura occidentale va bene solo quando fa comodo. La sera, i giovani della upper class di Riyad si ritrovano al Jax District. È un’ex area di vecchi magazzini, in periferia, trasformati in gallerie d’arte (solo islamica), negozi e bar che mandano musica occidentale (ma solo strumentale).

Tutto pare occidentale ma tutto è regolato dalla sharia. La Dolce Vita di Riyad ha una patina di moralismo religioso. Le donne arabe, simbolo di quell’emancipazione che tanto piace alle femministe occidentali, sono sbandierate come l’emblema del progresso sociale e dei diritti civili, ma le donne immigrate dai Paesi poveri a Riyad hanno sempre lavorato, spaccandosi la schiena con mestieri che le signore arabe si sono sempre guardate bene dal fare.

Le grandi riforme moderniste del Paese valgono solo per le donne della classe dominante, per le mogli degli sceicchi e degli arabi benestanti: una minoranza a cui è stata fatta una concessione “regale”, un lusso da aristocrazia.

Il contrasto tra integralismo e modernità è insanabile: più aumenta la modernità, che è occidentalizzazione di facciata, e più aumenta l’integralismo, religioso, sociale e culturale. Il regno saudita è una società multietnica dove l’immigrazione funziona perché di fatto si basa su un modello para-schiavistico: gli immigrati dai Paesi poveri – soprattutto Pakistan, India, e Bangladesh – sono la manodopera a basso costo, i servi della gleba di un feudalesimo che qui non ha mai conosciuto la Bastiglia o le ghigliottine, il motore, nascosto e silenzioso, della società araba.

L’autista che mi porta in giro è un indiano: mi dice che è arrivato 33 anni fa. È tornato a casa la prima volta dopo 10 anni e da allora non ha più rivisto la moglie e la famiglia. «È troppo costoso viaggiare e se non lavoro, non mi pagano», spiega. Nella luccicante Riyad che fa il verso a New York e Londra, non esistono le ferie. Il sospetto è che l’autista, come altre decine di migliaia di immigrati, siano tenuti “prigionieri” dalle agenzie di immigrazione: devono lavorare per riavere indietro il passaporto e sono costretti a rimanere nel Paese.

Anche gli occidentali che vivono e lavorano qui sono di fatto dei vassalli, ma godono di uno status superiore agli immigrati poveri, nell’invisibile ma impeccabile gabbia sociale: si chiamano expat, godono di stipendi molto generosi ma fanno una vita da reclusi, da servitori dei regnanti che non possono essere contraddetti. Vivono in compound, complessi residenziali in periferia, in mezzo al nulla: dentro hanno piscine e ristoranti, ma anche i più lussuosi, come quello dove vive l’ex milanista “Jack” Bonaventura, uno dei tanti giocatori pensionati dalla Seria A ma sedotti dalle sirene di Riyad, sono dei blocchi di cemento circondati da muri con filo spinato e pattugliati da soldati giorno e notte: roba da Muro di Berlino negli anni Settanta.

«Questo posto è pessimo, la maggior parte degli occidentali sta qui solo per i soldi, resiste qualche anno, quanto basta per mettere via un buon gruzzolo: guadagnano molto di più che in Europa e non si pagano tasse», rivela un italiano che vive in uno di questi complessi.

A un certo punto mi imbatto anche nel ministero degli Affari islamici: se volevo una prova concreta della teocrazia, ce l’ho davanti agli occhi. La grande auto-illusione dell’Occidente, Europa compresa, è stato pensare che se si fossero portati i valori e lo stile di vita occidentali nei Paesi musulmani questi si sarebbero laicizzati, ammorbiditi, “convertiti”. Invece hanno preso solo il consumismo. L’Arabia Saudita, capofila dei petroldollari del Golfo Persico, ama i lussi dell’Occidente: decine di shopping mall, migliaia di negozi delle catene occidentali, da Donkin ai McDonald’s, cinema e ristoranti.

Ma questo non smuove l’islam dai suoi principi di fondo: l’Europa si è secolarizzata dal cristianesimo, per le sue peculiarità storiche, sociali e culturali, ma qui la secolarizzazione non avverrà mai. Non ci sarà mai un Illuminismo che spodesterà l’islam dal ruolo patriarcale e totalitario che da secoli soverchia la penisola arabica, una cappa che plasma la vita quotidiana. La presunta modernizzazione si ferma a panini, Chanel e Ferrari.

La famiglia reale Al Saud liberò il Paese dall’occupazione ottomana, ma non è una monarchia alla Windsor: l’Arabia era ed è società tribale, composta da clan di guerrieri, oggi diventati sceicchi ed emiri, dove la religione, come ai tempi di Machiavelli, è ancora un instrumentum regni. E non saranno tutti i grattacieli né tutte le metropolitane di questo mondo a cambiare la loro natura.

Pezzo a pezzo, i sauditi si stanno comprando un Occidente sempre più impoverito e rammollito. Ma pensare che diventeranno occidentali è una pia illusione.

L’inganno di Ryad: modernissimo Medioevo
L’inganno di Ryad: modernissimo Medioevo
L’inganno di Ryad: modernissimo Medioevo
L’inganno di Ryad: modernissimo Medioevo
Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti