L’inviato di guerra: tra verità e spettacolo, la professione che uccide
- Postato il 18 giugno 2025
- Editoria/Giornalismo
- Di Paese Italia Press
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Massimo Reina
Il contatore di Reporters Sans Frontières non mente: dal 7 ottobre 2022 la Striscia è diventata il cimitero più affollato di cronisti del pianeta. Più dell’Iraq di Bush, più della Siria di Assad, più dell’Afghanistan dei talebani. Eppure, tra una breaking news e l’altra, tra uno speciale televisivo e il successivo, la macabra contabilità scorre via come acqua fresca. Perché raccontare la guerra, oggi, significa anche accettarne la mercificazione. E i morti, si sa, fanno sempre audience.
Ma andiamo con ordine, nell’ipocrisia sistemica che avvolge questa professione maledetta. Da una parte gli inviati, trasformati in gladiatori mediatici lanciati nell’arena per soddisfare la sete di adrenalina del pubblico domestico. Dall’altra gli editori, che li spediscono al macello con l’elmetto firmato e la pettorina griffata, salsalizzando sul loro coraggio per riempire palinsesti e vendere copie. In mezzo, i governi di mezzo mondo che pontificano sulla libertà di stampa mentre chiudono un occhio (quando va bene) sui crimini contro chi quella libertà la esercita davvero.
Il paradosso è servito su un piatto d’argento: mai come oggi l’informazione di guerra è stata così pervasiva, immediata, spettacolarizzata. E mai come oggi è stata così pericolosa per chi la produce. Non è un caso che il tasso di mortalità tra i giornalisti sia cresciuto esponenzialmente dall’Iraq in poi. La guerra del Golfo del ’91 aveva fatto scuola: embed, controllo dell’informazione, CNN effect. Ma i conflitti successivi hanno segnato una deriva inarrestabile verso il caos informativo, dove il giornalista non è più testimone protetto ma bersaglio designato.
“I giornalisti sono diventati parte della strategia bellica, non più osservatori esterni”, ha dichiarato recentemente il segretario generale di Reporters Sans Frontières Christophe Deloire. “Ucciderli significa colpire la possibilità stessa di raccontare la verità”. Una verità che, paradossalmente, interessa sempre meno.
Perché il pubblico vuole emozioni forti, non analisi complesse.
Vuole il sangue in diretta, non la comprensione dei meccanismi geopolitici.
Ecco allora il primo grande tradimento: quello delle redazioni che trasformano l’informazione bellica in voyeurismo collettivo. I desk romani decidono cosa deve vedere l’Italia, spesso ignorando le indicazioni di chi sul campo vive la realtà. L’inviato diventa una telecamera umana, un sensore biologico al servizio dell’algoritmo televisivo. Il risultato? Una narrazione frammentata, emotiva, sostanzialmente inutile per comprendere davvero cosa sta accadendo.
Ma c’è di peggio. C’è il cinismo di chi manda in onda i pianti degli inviati sotto stress, trasformando anche il trauma psicologico in contenuto consumabile. Dalla Bosnia degli anni ’90, quando i primi cronisti iniziarono a parlare apertamente di disturbi posttraumatici, ad oggi, il passo è stato breve. Il PTSD è diventato una categoria merceologica, quasi un marchio di fabbrica del giornalista di guerra che si rispetti. Si parla di “burnout da conflitto” come si discute di mal di schiena da ufficio, dimenticando che dietro quegli occhi spenti ci sono anni di orrore quotidiano, di morte vista da troppo vicino, di impotenza trasformata in cronaca.
Il secondo tradimento è quello delle istituzioni. L’Ordine dei giornalisti che fa comunicati di cordoglio ma non pretende protezioni concrete. Il governo che taglia i fondi alla cooperazione internazionale ma non lesina retorica sulla “missione democratica” dell’informazione. La Rai che spende milioni per corrispondenti blindati ma li lascia soli quando tornano a casa con l’anima a pezzi. Un sistema che considera i suoi cronisti di guerra come materiale di consumo, sostituibile e sostanzialmente sacrificabile.
Poi c’è la censura, quella soft ma efficacissima dei nostri tempi. Non più il commissario politico che taglia le righe scomode, ma l’autocensura di chi sa che certe verità non si possono dire. L’embed moderno non ha bisogno di catene: si autoregola, si adatta, si piega alle esigenze del momento. Gaza docet: quanti inviati hanno raccontato davvero tutto quello che hanno visto? Quanti hanno ceduto alla tentazione del politically correct, evitando di chiamare le cose con il loro nome per non essere accusati di antisemitismo o, al contrario, di filo-terrorismo?
La verità è che l’inviato di guerra contemporaneo vive una triplice schizofrenia: deve essere coraggioso ma non troppo (sennò muore), obiettivo ma non troppo (sennò non vende), umano ma non troppo (sennò diventa inservibile). Un equilibrismo impossibile che spesso si risolve nella mediocritas, nel racconto preconfezionato, nella cronaca che non disturba nessuno perché non dice niente di nuovo.
E mentre i giornalisti muoiono a Gaza, in Sudan, nel Myanmar, il circo mediatico continua imperterrito la sua danza macabra. Talk show che durano tre ore per analizzare un tweet, inviati che fanno dirette davanti a rovine per raccontare sempre la stessa storia, esperti da salotto che pontificano su conflitti che non hanno mai visto. Il tutto condito dalla retorica del “nostro inviato rischia la vita per portarvi la verità”, come se il coraggio individuale potesse sanare l’ipocrisia sistemica.
Resta un interrogativo amaro: vale ancora la pena morire per un’informazione che spesso è solo spettacolo? O forse è proprio questa la domanda sbagliata, e bisognerebbe chiedersi invece come sia possibile che una democrazia matura accetti così passivamente la trasformazione dei suoi testimoni in vittime sacrificali sull’altare dell’audience? La risposta, temiamo, la conosciamo già. Ma fa troppo male per essere detta ad alta voce.
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