L’Iran risponde alle sanzioni Onu con l’aiuto di Russia e Cina. Ma basterà?
- Postato il 6 ottobre 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Il ripristino delle sanzioni Onu contro l’Iran — annunciato sabato 4 ottobre dal segretario di Stato Marco Rubio a nome del presidente Trump — segna un nuovo punto di frizione nell’ordine internazionale. L’iniziativa, promossa da Francia, Germania e Regno Unito in base alla risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza, riattiva il meccanismo di “snapback” a causa delle violazioni iraniane dell’accordo nucleare del 2015 (noto con l’acronimo “Jcpoa”). È un passaggio voluto dai tre europei — gli “E3” — per isolare Teheran, ben accettato dai falchi bipartisan statunitensi, anche perché marca una distanza netta da Russia e Cina, le quali hanno tentato fino all’ultimo di bloccare il voto, chiedendo una proroga di sei mesi per riaprire il dialogo iraniano con Washington.
Quanto accade marca un doppio movimento: da un lato il ritorno delle sanzioni multilaterali che colpiscono i settori energetico, missilistico e della difesa iraniana; dall’altro, il rafforzamento del sostegno politico e strategico di Mosca e Pechino a Teheran. Mentre l’Occidente cerca di contenere le ambizioni nucleari iraniane, la Russia e la Cina agiscono come valvole di compensazione del regime, assorbendo parte dell’impatto economico e rafforzando la cooperazione in settori sensibili.
Nel Consiglio di Sicurezza, la posizione russo-cinese ha assunto una valenza che va oltre la difesa di Teheran. Mosca e Pechino hanno denunciato la mossa europea come un “abuso procedurale” e un precedente pericoloso che, a loro giudizio, mina il principio del consenso tra membri permanenti. Per il Cremlino, lo snapback segna l’ennesimo tentativo occidentale di utilizzare la cornice Onu come leva politica contro i rivali; per Pechino, rappresenta una conferma della necessità di costruire meccanismi multilaterali “non occidentali” di risoluzione delle crisi. L’asse fra le due potenze, consolidato dal comune interesse a erodere la centralità normativa occidente-centrica, si è così espresso apertamente nel cuore dell’istituzione simbolo del sistema post-1945 elevando la questione iraniana a vettore per una narrazione anti-occidentale che ormai permea tutti i campi delle relazioni internazionali — sfruttando la perfetta cornice onusiana, recentemente messa sotto stress dalle spinte riformatorie di vario genere emerse durante l’Assemblea Generale di due settimane fa.
La risposta russo-cinese
L’Iran è dunque un asset strategico. Il legame con Mosca si manifesta anche sul piano simbolico e operativo. Negli stessi giorni del voto Onu, il comandante della Marina dell’Artesh, l’ammiraglio Shahram Irani, è arrivato a San Pietroburgo per partecipare al vertice dei Paesi rivieraschi del Mar Caspio, incontrando alti ufficiali e politici russi e visitando basi e unità navali. L’incontro rientra in una catena di cooperazioni militari consolidate: le esercitazioni Casarex 2025 nel Caspio e la Maritime Security Belt nell’Oceano Indiano, a cui partecipano congiuntamente Russia, Cina e Iran. È la proiezione navale di un’intesa strategica che aggira il perimetro delle sanzioni e si estende dai mari interni eurasiatici alle rotte dell’Indo-Pacifico. Dalla città feudo di Vladimir Putin, l’ammiraglio iraniano dice che la Repubblica islamica non ha ancora deciso come rispondere alle nuove sanzioni, ma che si sta preparando “per potenziali conflitti”.
È una narrazione di forza arcinota, ma non si può sottovalutare peso e coinvolgimento dell’Iran nelle dinamiche mediorientali. L’Iran ha mostrato debolezza nel confronto con Israele innescato dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la successiva sanguinosa reazione di Tele Aviv. Debolezza dimostrata anche con gli Usa, circostanza scomoda per Russia e Cina, che non possono appoggiare un partner palesemente vulnerabile. E con la delicatissima situazione in corso — le negoziazioni sul Piano Trump per Gaza, che ha di fatto marginalizzato il ruolo russo e cinese nel tentativo di fermare la crisi in Medio Oriente — certe inceppi possono tornare a bloccare le dinamiche in corso.
Per Pechino, mantenere vivo e vivace l’Iran passa dalla relazione più economica che militare, ma non meno cruciale. Secondo un’inchiesta formidabile del Wall Street Journal, la Cina paga il petrolio iraniano con un meccanismo di baratto: in cambio delle forniture, finanzia la costruzione di infrastrutture attraverso Sinosure e la finanziaria Chuxin, bypassando il sistema bancario internazionale. Nel 2024 circa 8,4 miliardi di dollari di proventi petroliferi iraniani sono stati convertiti in progetti infrastrutturali, mentre dal 2000 Pechino avrebbe investito complessivamente 25 miliardi in Iran. È un modello di cooperazione che consente all’Iran di aggirare parte delle sanzioni e alla Cina di consolidare una presenza economica e logistica stabile lungo la dorsale del Golfo Persico, mantenendo Teheran a livello di junior partner.
L’effetto interno
Il contesto esterno si intreccia infatti con le fragilità domestiche. Le nuove sanzioni colpiranno un’economia già provata da inflazione al 40%, crisi energetica e carenze idriche. Il presidente Masoud Pezeshkian ha avvertito due giorni fa che Teheran “non ha altra scelta” se non spostare la capitale verso sud, citando il rischio di collasso idrico e subsidenza del terreno. Con oltre 10 milioni di abitanti, la capitale consuma un quarto dell’acqua del Paese; le dighe che ne fornivano il 70% sono ormai ridotte al minimo per scarsità di piogge e evaporazione. Le infrastrutture servono per non perdere ulteriore contatto con la popolazione: isolato dall’Occidente, la via cinese è quella più percorribile.
Dietro la proposta di trasferire il baricentro politico verso Hormozgan, affacciata sul Golfo, si intravede anche un progetto più strategico: avvicinare il cuore decisionale del Paese alle vie marittime e alle nuove infrastrutture costruite con capitale cinese. È anche una forma di adattamento geopolitico: se le sanzioni limitano l’accesso a tecnologie occidentali per la gestione delle risorse idriche e per l’esplorazione delle falde, l’Iran tenta di riorientare il proprio sviluppo verso aree meno dipendenti da quei saperi e più integrate nelle reti economiche asiatiche — ossia più utili alla Cina.